I robot stanno cominciando a fare sempre più parte della nostra vita e forse quegli scenari a cui la fantascienza ci ha abituato non sono ormai così lontani. Ecco perché esiste già chi studia l’interazione che avviene tra queste nuove tecnologie e gli esseri umani, come Simone Tosoni, docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi alla facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica. «Siamo ormai arrivati a una fase in cui la robotica umanoide di tipo sociale comincia ad avere delle applicazioni commerciali» spiega Tosoni. Non ce ne sono molte in Italia, però incominciano a comparire. Per esempio c’è un robot Pepper all’aeroporto di Bologna con funzioni informative e di intrattenimento. Ecco, noi ci stiamo occupando di studiare queste situazioni, che iniziano a essere non più situazioni di laboratorio, ma situazioni di effettiva implementazione dei robot».

Lo studio di queste nuove tecnologie è un ambito su cui l’Università Cattolica sta investendo molto: «Ci sono tre diversi gruppi nel nostro ateneo che si stanno occupando del tema – informa il sociologo –. Uno è un tavolo di lavoro voluto dal delegato del rettore per la ricerca professor Roberto Zoboli, che oltre a me coinvolge vari docenti di diverse discipline, come ad esempio il professor Fausto Colombo per quanto riguarda gli studiosi dei media, e Giuseppe Riva per gli Psicologi. Tra le altre cose, da questo tavolo di lavoro permanente stanno prendendo forma laboratori di collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia (Iit), come quello che coinvolge i colleghi di Scienze agrarie, alimentari e ambientali».

Inoltre, tra le ricerche di interesse di Ateneo, la Cattolica ha deciso di finanziare altri due progetti impegnati nello studio della robotica: «Uno fa capo ancora una volta al professor Riva, l’altro fa capo invece al professore di filosofia Massimo Marassi, che più in generale si occupa del rapporto tra l’umano e il tecnologico». Quest’ultimo ha al suo interno dieci gruppi di ricerca di cui uno è quello coordinato dal professor Tosoni in collaborazione con la professoressa Giovanna Mascheroni e che si occupa di studiare l’interazione tra umani e robot in contesti che incominciano a essere naturali.

Il 20 maggio scorso alla riunione di lancio del progetto erano presenti due ospiti internazionali: Frauke Zeller, della Ryerson University, e David Harris Smith, della McMaster University. Si tratta di due ricercatori canadesi divenuti noti per un esperimento che ha avuto una grande visibilità, in cui un robottino di loro invenzione chiamato hitchBOT doveva attraversare il Canada facendo l’autostop. La tecnologia utilizzata non era sofisticatissima: il robot era alto circa un metro e mezzo, era dotato di un localizzatore GPS ed era unicamente in grado di fare l’autostop e di dare alcune informazioni su come dovesse essere gestito. 

«Quando è partita questa iniziativa – racconta Tosoni – la gente ha incominciato a seguire il progetto sui social media, a commentarlo, ad andare a cercare il robot, a partecipare a questo gioco collettivo intorno alla macchina e, mentre facevano questo, ne parlavano, facevano capire il loro atteggiamento nei confronti del robot. Che era ciò che interessava ai ricercatori».
 
Interessante è la domanda di fondo da cui è partito lo studio dei colleghi canadesi, un interrogativo un po’ ribaltato rispetto a quello che normalmente ci si pone: «In questa fase di diffusione dei robot, anche a causa delle rappresentazioni mediali, c’è un atteggiamento cauto, come se non sapessimo bene se possiamo fidarci dei robot, invece la loro domanda era “possono i robot fidarsi degli umani?”. Dal momento in cui io installo e rilascio un robot nello spazio pubblico le persone che tipo di atteggiamento hanno nei suoi confronti? Sono portate a danneggiarlo? Sono portate ad assisterlo? Sono portate a giocarci?». 

E la risposta nel caso specifico dell’hitchBOT di Zeller e Smith è stata controversa, perché si è visto che dipende dagli spazi in cui si mette il robot: «In Canada è andato tutto liscio – sostiene il sociologo –, c’è stato un gioco collettivo, l’esperimento è andato a buon fine e il robot è riuscito ad attraversare il Paese, negli Stati Uniti no. Negli Usa il robot è partito, anche lì seguito con grande attenzione, ma a un certo punto è sparito ed è stato distrutto. Tra l’altro, in occasione della sua distruzione, c’è stata una grandissima attenzione da parte di tutti i giornali, i ricercatori sono stati intervistati da tutte le principali testate e la notizia ha avuto una visibilità internazionale». 

In Italia i robot umanoidi a uso sociale sono sempre più diffusi, anche se il loro numero continua a essere piuttosto ristretto: per esempio il modello Pepper non è presente solo a Bologna, ma anche in un negozio di sigarette elettroniche in Darsena a Milano, in una gioielleria in Sicilia e in altri luoghi. Il Pepper è un robot con forma antropomorfa, montato su ruote, dotato di uno schermo sul petto. Questo tipo di macchina interagisce soprattutto comunicativamente con il pubblico come fanno i totem elettronici, però ha delle specificità che questi non hanno. Per esempio utilizza il corpo per comunicare instaurando un rapporto inedito con le persone. Inoltre ha un riconoscimento vocale. Solo se il Pepper è collegato con un sistema di intelligenza artificiale, raggiunge il livello di interazione comunicativa che hanno smart speakers come Alexa o Siri, altrimenti ha una forma di interazione che è tutta pre-scritta, come avviene con quei sistemi digitali al telefono che permettono di fare delle scelte.

«Quando noi pensiamo a dei robot, pensiamo a qualcosa che agisce nel mondo, questa è la definizione di robot» spiega Tosoni. «E la capacità di robot come il Pepper di agire nel mondo è estremamente limitata». Oltre a questa macchina, esistono anche altri modelli: «Per esempio nella nostra università – prosegue il sociologo – l’altro gruppo di ricerca a cui facevo riferimento sta lavorando con due Nao, un robottino di uso laboratoriale dalle dimensioni ridotte». In realtà esistono anche modelli più sofisticati di robot, che, però, visto il loro prezzo elevato, sono usati solo in situazioni sperimentali create all’interno dei laboratori: «Noi stiamo collaborando con l’Istituto italiano di tecnologia – rivela Tosoni – e le loro macchine sono estremamente avanzate». 

Nonostante i robot diffusi al di fuori dei laboratori siano poco sofisticati, mantengono sulla gente una forte attrattiva, anche perché siamo ancora in una fase embrionale, di inizio, di arrivo di queste tecnologie nello spazio pubblico: «Sono macchine – commenta il sociologo – cariche di stupore tecnologico per chi le vede per la prima volta, perché ti trovi di fronte a un robot che comunque si muove e si muove in maniera realistica, ha un corpo, ti interpella e interagisce, per quanto in maniera limitata, con te». Questo stupore, però, col tempo tende a svanire: «Allora si inizieranno a pensare a usi più sistematici della macchina – continua Tosoni –, ad esempio l’integrazione coi sistemi informativi online, per cui il robot non fa più solo intrattenimento, ma inizia veramente a offrire un servizio informativo, che magari può alleggerire il lavoro di altre funzioni, per esempio all’interno di un’istituzione».

Oggi queste tecnologie vengono più che altro adibite a un uso comunicativo e di intrattenimento: «Per esempio il robot può essere installato in un luogo di attesa – ipotizza il sociologo –, può sostituire la macchina che eroga i bigliettini per fare la coda e può iniziare a dare alcune informazioni su una serie di servizi. È quello che stiamo pensando, a fini sperimentali, anche per il nostro Ateneo». In ogni caso Tosoni avverte di non credere a quei video diffusi su internet dove sembra che la macchina interagisca in maniera naturale con un essere umano quasi fosse un suo pari, perché si tratta di copioni già scritti. La ricerca ha ancora molta strada da fare prima di arrivare a robot sociali antropomorfi simili ai replicanti di Blade Runner.