di Marta Reichlin *

Sono partita per l’Etiopia all’avventura, senza volermi fare troppe idee su come sarebbe stato prima di partire: di certo avevo voglia di mettermi in gioco e di conoscere una nuova cultura ma non avrei mai potuto né osato immaginare così tanto.

Dopo un breve passaggio ad Addis Abeba, dove siamo state subito accolte dalle suore, io e la mia compagna di viaggio ci siamo trasferite a Debre Birhan, dove le suore gestiscono la scuola materna, elementare e media in cui noi avremmo organizzato corsi di inglese e attività di doposcuola.

Se queste erano le richieste “ufficiali”, la mia sfida personale era quella di sperimentare le tecniche teatrali come forma di intervento educativo e sociale: si tratta del particolare ambito del “teatro sociale” su cui sto svolgendo attività di ricerca per la mia tesi magistrale. 

I “risultati”? Basti pensare che i ragazzini etiopi riescono a contare in gruppo senza sovrapporsi (uno dei primi basilari esercizi di teatro) fino a 23 al primo colpo, laddove per mia esperienza ragazzini italiani della stessa età faticano ad arrivare a 10. È significativo che, dove manca tanto, non scarseggia la capacità di ascoltarsi, aspettarsi e soprattutto andare a ritmo assieme. 

Per non parlare della loro capacità di valorizzare ogni singolo gesto e momento: non ci è voluto molto a capire che in fondo non erano tanto i giochi a renderli felici, quanto piuttosto la nostra semplice presenza. È stata una felicità reciproca: organizzare vari percorsi a ostacoli, olimpiadi e caccie a tesoro hanno divertito noi almeno quanto loro… Se non di più!

Tutto quello che siamo riuscite a fare è stato possibile grazie alla preziosissima mediazione inglese-amarico di Leul e Dian, due fratelli e ragazzi straordinari che abitano lì vicino e da anni accolgono e stanno vicini alle studentesse universitarie; sono innamorati dell'Italia e sognano un giorno di vedere Milano e soprattutto San Siro. E noi stiamo sognando con loro di organizzare una colletta tra tutte le studentesse che hanno avuto la fortuna di conoscerli in questi anni per regalare loro un viaggio altrimenti impossibile. 

Innanzitutto perché ci mancheranno come  dei veri amici, e per ringraziarli e ricambiare l'amore e l'accoglienza uniche che ci hanno regalato aiutandoci in tutto, dalla lingua alla città che ci hanno permesso di vivere da “vere etiopi” con tutto quello che questo comporta: camminare per strada con un faro puntato addosso, essere salutate e abbracciate da tutti i passanti e ballare fino a slogarsi le spalle (come prevede la loro danza tradizionale). 

Da Leul e Dian ho imparato, e poi a mia volta sperimentato in prima persona, quanto possa essere prezioso e arricchente donare il proprio tempo e le proprie capacità per una volta senza limiti di tempo, un mese intero da dedicare agli altri e a se stessi. E ricevere molto di più, diventando al contempo donatori e beneficiari delle proprie attività. Sono partita infatti con l’idea di voler e poter aiutare chi avrei incontrato lì, ma devo ammettere che sono proprio loro ad avere aiutato me: sono stati per me dei veri maestri insegnandomi a leggere e scrivere il loro alfabeto, le loro canzoni e i loro balli di cui mi sono subito innamorata. 

È stato meraviglioso vedere come quei “bambini”, che prima di partire erano per me concetti generici, piano piano sono diventati volti e nomi propri: “Helias”, “Dawid”, “Surafel”. Da partecipanti alla mia esperienza di volontariato, sono diventati rapporti personali che mi mancano terribilmente. E in maniera anche spudoratamente “egoistica”. Infatti ho una grande nostalgia di quel mondo così altro e diverso in tutti i sensi: così povero di alcune cose per noi basilari, ma così pieno di altre ricchezze quali l’allegria, la speranza e l’accoglienza e la generosità, valori dei quali siamo noi occidentali ad essere “poveri”, specie di questi tempi di crisi. Le persone che ho incontrato lì, con le quali il più delle volte non avevo altro linguaggio in comune che quello dei gesti, prima ancora che conosciuta e capita, mi hanno semplicemente accolta come se fossi una di loro: mi hanno offerto generosamente il poco che avevano invitandomi nelle loro case a mangiare o anche solo a passare del tempo insieme. E io ci ho messo un attimo a sentirmi a casa, seppur in un contesto così lontano e diverso dal mio di cui in sole tre settimane sono riusciti a farmi sentire parte integrante.

Dopo mille feste, regali e letterine, ci siamo abbandonate a un bagno di abbracci (e lacrime!) e siamo tornate in Italia con il cuore un po’ straziato, ma riempito d’amore e ricordi indimenticabili: alcuni bambini mi hanno lasciato i numeri delle loro madri da chiamare, mentre le ultime parole di Hélias, 11 anni, sono state tanto semplici quanto forti: ”Remember me”. Come potrei mai dimenticare ora che ha conquistato un pezzo del mio cuore, che resterà laggiù e di cui sentirò la mancanza per sempre? Di questa meravigliosa avventura e cultura etiope infatti ho sperimentato e mi mancherà soprattutto essere io quella straniera, la "farenji " (che in amarico significa "bianca") bionda additata per strada perché diversa... E amata per questo. 

* 23 anni, di Milano, secondo anno della laurea magistrale in Lettere, curriculum in Filologia moderna, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano