di Margherita Tessaro *

Parto con una sconosciuta, torno con un’amica. E con una nuova grande famiglia: ho sette nuove mamme e novanta bambini. Al decollo da Milano, mi chiedo perché ho deciso di partire: il solito panico pre-partenza. Al ritorno, mi chiedo perché non posso rimanere e come farò a riabituarmi alla quotidianità del mondo da cui vengo, che ora mi sembra per certi versi “insensato”. 

È mezzanotte, scendiamo dall’aereo e andiamo incontro all’ignoto. Un foglio bianco con su scritto “Giorgia e Margherita”, due suorette che neanche riusciamo a vedere per quanto bassine sono. Saliamo in macchina, si percepisce un po’ d’imbarazzo perché loro non capiscono il francese, come invece noi davamo per scontato. Strade larghe e diritte, ma andiamo pianissimo, chissà. E in lontananza una distesa infinita di luci: Antananarivo, capitale del quinto Paese più povero al mondo. 

Iniziano le prime casette coloratissime, cataste di ombrelloni, bancarelle, qualcuno che cammina in mezzo alla strada portandosi dietro il suo carretto, zebù ai lati delle strade come fossero macchine parcheggiate. Alziamo gli occhi e vediamo la luna muoversi velocissima, disegnando una sorta di ellisse: «Bizzarro» direbbe Giorgia. Qualche ora più tardi partiamo per la nostra meta, Fianarantsoa. Non sono nemmeno 300 km ma ci mettiamo una decina di ore in macchina, e in quest’arco di tempo mi rendo conto di come non potessi nemmeno immaginare cosa fosse la povertà prima di atterrare in questo paese africano, ma così diverso dall’idea di Africa che tutti abbiamo.

Finalmente arriviamo all’orfanotrofio, dopo un viaggio che sembra durato settimane. Non facciamo neanche in tempo a scendere dalla macchina che una marea di “Salama, ciao, buongiorno! Comment tu t’appelles?” ci travolge: i bambini ridono, cantano, ci si lanciano addosso senza conoscerci, e ci accompagnano fino alla porta della nostra camera. Per loro è festa, è arrivato qualcuno con cui giocare e a cui chiedere attenzioni. Inizia così la nostra avventura, inizia così uno dei mesi più belli e più pieni della mia vita. 

All’Orphélinat Catholique di Fianarantsoa, il secondo orfanotrofio più grande d’Africa, ciascuno dei quasi 200 bambini è speciale, e le Suore Nazarene, che lo gestiscono, conoscono perfettamente la storia di ognuno, i loro gusti, le loro peculiarità. Piano piano iniziamo a conoscerli anche noi. Hanno tutti una storia incredibilmente triste alle spalle, ma si sono ritrovati fratelli e sorelle in quest’oasi d’amore che le suore dimostrano loro in ogni istante. 

C’è Feno, arrivato lì a 9 mesi pesando un solo chilo, e che adesso, a quasi due anni, mangia tutto ciò che rimane nel piatto degli altri. E Nantenaina, il cui enorme sorriso sdentato non può che fare ancora più tenerezza quando scopri che è stato portato in orfanotrofio con gambe e braccia completamente fratturati perché i genitori lo picchiavano. C’è Aimée, appena tornata dalla vacanza a casa dei nonni che non hanno i mezzi per mantenerla: ripete tutto quello che dico in italiano ed è una soddisfazione farle capire che la risposta logica al mio “Ciao Aimée” è “Ciao Margherita”. 

E poi, ci sono Fana e Nambinina, che il mercoledì mattina portiamo in carcere perché i genitori di entrambi sono lì per furti di bestiame. C’è Fanirina, la cui madre soffre di disturbi mentali e che ogni tanto si presenta all’orfanotrofio nella speranza di poter riportare a casa quel concentrato di dolcezza, curiosità e furbizia che è sua figlia. Ci sono Noeline, Entsa, Claudia e Adelina, Sylvie, Erica e Pakouli. E poi ci sono tutti i “nostri” maschi: Leonardo, Alexis, Herman, Enrico, Antonio e Michel, che “no hanno nishuno”, come direbbe suor Pascaline. 

Nessuno è mai solo all’orphélinat. Si prendono cura l’uno dell’altro con un amore fraterno che non avevo mai visto prima. Ai piccoli badano volentieri anche i bambini di 7 anni: si fermano nella loro stanza calda per imboccarli, per addormentarli, per farli giocare. In bagno si va sempre in gruppo, non sia mai che qualcuno ci debba andare solo! E nemmeno noi siamo mai sole: quando al mattino facciamo capolino dalla porta della camera, ci sono già i loro musetti ad accoglierci, pronti a scortarci fino in cucina dove facciamo colazione, e mezzora dopo sono ancora lì, ad aspettarci per giocare insieme. 

“Margheriiit, Giorgia! Giardaina!”, è l’urlo di Alice, Marceline, Sidonie, di Noeli, Bertrand, Emmanuelle e di tutti gli altri, che ogni giorno vogliono essere accompagnati alla stalla, dove ci indicano ogni animale insegnandoci i loro nomi malgasci. Così come ci insegnano a contare nella loro lingua salendo i gradini che portano al terrain, il grande spiazzo che ogni domenica pomeriggio si trasforma in una grande festa: si gioca a palla, si balla sulle note della loro musica, ci si rincorre fino a non avere più fiato, ci si butta fra le spighe di grano. Tutti assieme, nessuno è escluso.

Ed è proprio al terrain che l’ultimo giorno iniziano i saluti, e con questi le lacrime, a fiumi. Ma in queste lacrime c’è la consapevolezza che questo non è un addio, ma un Veloma, un arrivederci. Il Madagascar, infatti, mi ha colpita subito, appena ho scorto l’intensità dell’azzurro dei suoi cieli e la luminosità delle sue stelle, il rosso profondo della sua terra e i mille riflessi delle sue distese di risaie; mi ha colpita assaporando i gustosi frutti, annusando gli odori. Ma quello che mi rimarrà per sempre dentro sono tutti gli abbracci, tutto l’amore, tutti i sorrisi che mi sono stati donati come un regalo meraviglioso. Sono partita credendo di poter fare qualcosa per questi bambini, ma ho ricevuto il centuplo proprio da loro, che sono felici per non avendo nulla. Misaotra Madagascar, grazie! 
 
* 25 anni di Pozzuolo del Friuli (Ud), secondo anno del corso di laurea magistrale in Scienze linguistiche - Management internazionale, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, sede di Milano