Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani si recheranno alle urne per decidere, in concomitanza con le elezioni regionali e comunali, se confermare o meno la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, portando i deputati alla Camera da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Si tratta di un referendum confermativo che, a differenza di quello abrogativo, non prevede il raggiungimento di un quorum di affluenza, per cui l’esito è valido indipendentemente dalla percentuale di partecipazione degli elettori. Per fare chiarezza sul tema e capirne qualcosa di più abbiamo chiesto agli esperti dell’Università Cattolica di entrare nel vivo della questione al di là delle ragioni partitiche che dividono il Paese. Il nostro Speciale referendum


Taglio dei parlamentari equivale veramente a un abbassamento dei costi della politica? «Questa storia è pura propaganda». A parlare è Alessandro Mangia, docente di Diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano, e, da studioso, attento osservatore delle dinamiche politiche italiane.

«I 500 milioni a legislatura di minori emolumenti sono 100 milioni all’anno» spiega il giurista. «E visto che le tasse su quei 100 milioni si pagano, il risparmio è di circa 57 milioni all’anno. Se la prendiamo larga, e diciamo che i milioni risparmiati sono 60 all’anno, ci accorgiamo che per ciascuno dei 60 milioni di italiani il risparmio sarà di un euro all’anno. Si capisce che, al di là degli slogan, c’è dell’altro che è più profondo. Sono trent’anni che si parla di riforme mai compiute. C’è ormai un armamentario di discorsi che risalgono alla fine della Prima Repubblica, che periodicamente vengono rispolverati e dati in pasto all’opinione pubblica come ricette salvifiche. La verità è che è da allora, e cioè dai tempi di Tangentopoli, che si cerca di volgere la forma di governo italiana in senso francese, facendone una democrazia di investitura, in stile V Repubblica, che marginalizzi definitivamente il Parlamento». 

E il tentativo renziano? «Il disegno di Renzi era coerente con questa linea. Come lo era quella di Berlusconi del 2006. Basta con il Parlamento, facciamo le elezioni una volta ogni 5 anni, ed eleggiamo un esecutivo. Il resto non serve a niente. Da qui l’idea del taglio dei parlamentari. Spiace dirlo, ma è un discorso di un semplicismo disarmante. Se a questo discorso si somma l’antiparlamentarismo dei 5S, la polemica originaria verso la “casta” da punire, e il loro favore verso la democrazia telematica - che è poi la democrazia diretta più lo smartphone – si capiscono i pericoli impliciti in questa saldatura». 

Guardando agli altri Stati europei, il nostro Paese vanta un eccesso di parlamentari? «Quando si ragiona di diritto costituzionale con la statistica si fanno sempre dei discorsi sconclusionati. Le Costituzioni europee non sono commensurabili tra di loro. Lei vorrebbe comparare il sistema italiano a quello tedesco dove non c’è un Senato, ma una Camera di rappresentanti dei Governi dei Laender? O vorrebbe comparare il Senato italiano a quello americano dove, sempre in omaggio al principio federale, siedono due senatori per ogni Stato dell’Unione? Un eccesso alla luce di quale parametro? Se lei esamina la questione alla luce del rapporto numerico tra elettori ed eletti – che sarebbe il primo criterio da considerare – lei ha risultati diversi, a seconda che metta assieme o no Camere Alte e Camere Basse. Non si sommano le pere con le mele. La valutazione non può che essere politica. È che di questa parola si è perso il senso negli ultimi trent’anni. Da qui il discorso sulle riforme, fondato sull’equivoco per cui basterebbe riscrivere qualche pezzo di costituzione per rifondare la politica».  

Secondo Massimo Cacciari “riforma costituzionale per la riduzione del numero dei deputati e legge elettorale avrebbero dovuto procedere appaiate…” Cosa ne pensa? «Penso che Cacciari riporti i contenuti dell’accordo politico che ha indotto il Pd a votare questo referendum nell’ottobre scorso, dopo avere votato No nelle tre precedenti votazioni, quando era all’opposizione. Il Sì alla riforma era stato ottenuto all’inizio del Governo Conte 2 dai 5S in cambio della promessa a riscrivere in senso proporzionale la legge elettorale. Diciamo che, pur di andare al Governo, il Pd ha rinnegato le posizioni che aveva quando era all’opposizione in cambio di un “faremo”. Quel che si è fatto si è visto. La legge elettorale proporzionale è ancora in mente Dei, mentre la riforma è qui da votare. Se ha memoria, si accorgerà che è più o meno lo stesso giochino che era stato fatto mesi prima, durante il Governo Conte 1, con la Lega, a cui era stata promessa l’autonomia differenziata in cambio del taglio dei parlamentari. Ecco, diciamo che l’autonomia differenziata sta nello stesso posto dove sta la legge elettorale. Quel che non si dice sui giornali è che il taglio dei parlamentari fa parte di un pacchetto che comprende anche referendum approvativo e modifiche al divieto di mandato imperativo». 

Che cosa intende? «Questo è soltanto il primo passo per comporre un triangolo fatto di taglio dei parlamentari, referendum approvativo e ridefinizione dello status del parlamentare, nel senso di assoggettarlo alle direttive politiche del gruppo di appartenenza. Questa riforma ha proceduto in parallelo con quella del referendum approvativo, che aveva raggiunto già tre votazioni su quattro. Nel patto di governo è stato incluso solo il taglio, ma basta una sola votazione e avremo un referendum (costituzionale) sui referendum (approvativi). Un referendum su come fare i referendum, insomma. Ora, io posso capire che la politica sia l’arte del possibile, ma qui mi sembra che si sia già entrati nel surreale. Semplicemente, questo referendum serve ai 5S per avere una vittoria di bandiera. Per il Pd è un prezzo da pagare per stare al Governo ancora un po’. Non è complicato. La legge elettorale, se mai si farà, si farà il più tardi possibile, per andare a votare il più tardi possibile. Renzi permettendo, visto che l’ex premier non ne vuol sapere di una legge elettorale con sbarramento al 5% che lo taglierebbe fuori. Ma visto che, senza Renzi, il Conte 2 non sta in piedi, siamo al punto di partenza». 

Ma qual è il quadro politico in Italia? «Che i partiti nel senso classico del termine non esistano più da un pezzo, è un luogo comune. Il punto è che il posto dei partiti è stato preso da cacicchi locali che si affrontano con le loro compagnie di bandiera a livello nazionale. E che per questo devono mandare quanti più dei loro fedeli alla Camera e al Senato. Lei capisce che la logica del divieto di mandato imperativo, che garantisce libertà e indipendenza al parlamentare eletto, è incompatibile con il caciquismo, che vive di sottoposti e fedeltà personale. Gruppi parlamentari troppo numerosi sono difficili da controllare da un segretario di partiti. Da qui tanti passaggi tra un gruppo parlamentare e un altro, e tanti cambi di casacca. La verità è che il capo politico controlla il partito solo nel momento in cui compone le liste elettorali o in cui distribuisce posti di sottogoverno. Al di fuori di quel momento è solo la convenienza a tenere assieme i gruppi parlamentari: prova ne sia che chi l’anno prima sta all’opposizione di qualcuno, l’anno dopo può stare al Governo con altri senza troppi problemi. In mancanza di differenze ideologiche il collante non può che essere altro». 

A fronte di questa situazione diminuire il numero dei parlamentari significa semplificare la burocrazia politica e numero delle leggi? «Il taglio dei parlamentari non favorisce la governabilità del Paese, o l’efficienza dei lavori delle Camere. Queste sono petizioni di principio. Se serve a qualcosa, serve a garantire la governabilità del partito. Gruppi parlamentari più piccoli svolgono le medesime funzioni ma sono, in genere, più facili da soddisfare, e da mantenere compatti. E allora si capisce che questa riforma serve, in realtà, a semplificare la vita alle segreterie di partito che oggi hanno gruppi troppo numerosi e indisciplinati e difficili da gestire. Chi parla di “posti” da tagliare, in realtà, vuole semplificarsi la vita, e parla dei “posti” dei suoi sottoposti. Non del suo. E chi se ne importa dei lavori in Commissione, o di Regioni sovra o sottorappresentate. Di interesse degli elettori, poi, se ci pensa, non parla nessuno. E chi lo fa, ne parla in termini di “rappresentatività” e “pluralismo” delle Camere, in modo tale da non farsi capire da nessuno». 

Se la riforma passasse ci sarebbe un miglioramento nella gestione della “res publica” e una valorizzazione degli operosi rispetto agli oziosi? «Ma se lei va in ufficio postale e crede che lavori male, le salta in mente che, tagliando gli impiegati di un terzo, funzionerebbe meglio? Basta farsi questa domanda e darsi una risposta. Se si taglia, si taglia in un quadro di riorganizzazione generale. Questo è un taglio lineare abbellito da un po’ di moralismo. Non c’è niente di serio in tutto ciò. La politica non si fa con l’organizzazione aziendale. Con quella, semmai, si riorganizzano i Ministeri. Capisce che il problema, enorme, che abbiamo di fronte sono i meccanismi di selezione della classe politica, e il processo di sfaldamento dei partiti, che ormai è arrivato a un punto di non ritorno. Si tratta di un processo in corso con velocità diverse nelle democrazie europee, ma che - lo dobbiamo riconoscere - in Italia è stato più intenso e più veloce che altrove. Tangentopoli ha lasciato il segno, e ci ha lasciato quello che abbiamo sotto gli occhi. In questo sta la vera debolezza dell’Italia in Europa».

Circa 200 docenti di Diritto costituzionale hanno sottoscritto un appello in cui spiegano le ragioni del No. Se da un lato, “la materia costituzionale non può essere svilita fino a diventare argomento di mera propaganda elettorale”, nel merito, “il taglio lineare prodotto dalla revisione incide sulla rappresentatività delle Camere e crea problemi al funzionamento dell’apparato statale”, si legge nel testo. È così? «Quel documento è apprezzabile in quanto invita a votare nettamente e chiaramente No. E contiene diverse cose condivisibili, accanto ad altre che lo sono meno. Ha un grande difetto, secondo me, che è poi quello di scendere al livello dei propagandisti di questa riforma, opponendo petizioni di principio ad altre petizioni di principio. Il problema, qui, non riguarda tanto il diritto costituzionale, ma la sociologia della politica o, peggio, la cronaca di costume. La verità è che il Sì sarà il riconoscimento formale del caciquismo attuale del nostro sistema. E lo renderà molto più simile al Sud America, di quanto non sia oggi. Si parla tanto di Europa: ma quale sarebbe lo Stato europeo in cui la maggioranza, prima di ogni elezione, si riscrive la legge elettorale? Mi sembra un ottimo esempio della sudamericanizzazione del nostro sistema politico».