Nessuna sorpresa dal referendum: una buona affluenza e una forte conferma da parte del corpo elettorale alla proposta del Parlamento. Per quanto riguarda il voto regionale si è delineato un quadro di perfetta parità: tre regioni al centrodestra, di cui una, le Marche, strappata al centrosinistra, e tre a quest’ultimo. Abbiamo chiesto ad alcuni docenti della Cattolica di capire a che cosa sono chiamate le forze politiche alla luce dei risultati della competizione elettorale (vai alla pagina introduttiva)
di Michele Massa *
Le prime analisi dei flussi sul voto referendario sembrano indicare che la coincidenza con le altre consultazioni elettorali ha aumentato l’affluenza di 10-15 punti percentuali, laddove si è verificata, e di circa cinque punti nell’insieme.
Le analisi dei prossimi giorni diranno qualcosa di più dei risultati e dei flussi elettorali. Al momento, sembra che il No si sia affermato soprattutto nei centri storici e tra gli elettori del Partito democratico, mentre il Sì ha largamente prevalso tra i sostenitori degli altri partiti e soprattutto, naturalmente, tra quelli del Movimento 5 Stelle, che ne aveva fatto la propria bandiera.
Cosa succederà ora
Il Presidente della Repubblica promulgherà la legge costituzionale, a favore della quale si sono pronunciati i cittadini (qui il testo). I suoi effetti si produrranno «a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore […] e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore» (art. 4 del testo). In sostanza, dal prossimo scioglimento delle Camere.
Il sistema elettorale è già in grado di funzionare con il numero di parlamentari “tagliato”: è stato adattato con la legge n. 51 del 2019. Occorre solo che il Governo adotti i decreti legislativi necessari a ridisegnare i collegi elettorali: a questo scopo è utilizzabile la delega, già vigente, di cui all’art. 3 della legge citata. Attenzione: il sistema è in grado di funzionare, sì, ma lo farà in modo diverso da prima. Poiché è stato ridotto di un terzo il numero dei seggi da distribuire, la selezione sarà più stringente anche nel canale proporzionale, che vale 5/8 del totale.
Succederà altro?
Quando fu varato il Governo Conte, i capigruppo della nuova maggioranza – compreso il Partito democratico, che sino ad allora si era opposto al taglio dei parlamentari – hanno concordato un pacchetto di riforme che avrebbero dovuto affiancare quella appena compiuta:
- una nuova legge elettorale, studiata per «garantire più efficacemente il pluralismo politico e territoriale, la parità di genere e il rigoroso rispetto dei principi della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia elettorale e di tutela delle minoranze linguistiche»;
- l’equiparazione dei requisiti (età) per l’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, nonché, per quest’ultimo, la soppressione del principio di elezione a base regionale (in sostanza, la piena uniformazione delle due Camere);
- la modifica del numero dei delegati regionali che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica;
- un adattamento dei regolamenti parlamentari non solo alla nuova e minore consistenza delle due Camere, ma anche agli obiettivi di armonizzare il loro funzionamento, «limitare in maniera strutturale il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia» e «dare certezza di tempi alle iniziative del Governo e più in generale ai procedimenti parlamentari»;
- la valutazione di ulteriori «possibili interventi costituzionali, tra cui quelli relativi alla struttura del rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo e alla valorizzazione delle Camere e delle Regioni per un’attuazione ordinata e tempestiva dell'autonomia differenziata» (qui il testo completo del documento).
Obiettivi ambiziosi. Al momento, si è visto poco.
Sul fronte elettorale, sono in corso d’esame varie proposte alla Camera. Quella adottata come testo base dalla I Commissione Affari Costituzionali prevede un sistema integralmente proporzionale, con liste singole e senza coalizioni e con una rimodulazione delle soglie di sbarramento, accompagnate da un “diritto di tribuna” per i partiti che non le superino (maggiori informazioni qui). Tuttavia, la materia è oggetto di grande incertezza politica. Nessuno sa se e quale esito questo procedimento legislativo avrà.
Per quanto riguarda il secondo punto, il testo approvato in seconda lettura dal Senato lo scorso 9 settembre prevede solo l’eliminazione del requisito dei 25 anni di età per eleggere i senatori, fermi restando i 40 anni per essere eletti (sono 25 alla Camera). Esiste una proposta in materia di base territoriale per l’elezione del Senato e di riduzione del numero dei delegati regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica, ma è ancora in alto mare. Tutto il resto, per la verità, non è nemmeno all’orizzonte (maggiori informazioni qui).
Un commento
Due preoccupazioni hanno accompagnato questa riforma ed è bene che continuino ad accompagnare i prossimi sviluppi: che il suo vero obiettivo fosse mortificare il Parlamento, la democrazia rappresentativa e, dunque, il governo politico di una società complessa; che il suo risultato possa essere non una maggiore efficienza e autorevolezza del Parlamento e dei parlamentari, ma invece una maggiore soggezione dell’uno e degli altri alle segreterie dei partiti e alle pressioni di quei centri di potere, il cui appoggio può risultare più efficace in competizioni destinate a diventare, improvvisamente, più serrate.
Un commentatore caustico ha parlato di «riconoscimento formale del caciquismo attuale del nostro sistema» e del rischio di una «sudamericanizzazione». D’altra parte, nemmeno è consolante che, anche tra i fautori del sì, vi fosse chi non sembrava troppo preoccupato principalmente perché «i partiti, e purtroppo non solo quelli piccoli, non sono espressione di un autentico e vitale pluralismo sociale», sicché lasciare fuori dal Parlamento le forze più piccole non avrebbe limitato significativamente una rappresentatività già compromessa.
Il punto fondamentale è questo: occorre rafforzare il governo politico della società, per non rassegnarsi che se ne affermi (ancora di più) uno – per così dire – impolitico. Per farlo, sono certamente necessari cambiamenti. Personalmente, ritengo che il più urgente sia proprio quello dei regolamenti parlamentari di cui si è detto sopra, per riportare le Camere a un certo grado di efficienza, capacità decisionale, trasparenza e responsabilità. Nemmeno è detto che i cambiamenti più urgenti siano di carattere legislativo e regolamentare: per ridare vita ad alternative democratiche, è essenziale l’atteggiamento politico e culturale dei partiti esistenti – in particolare, la loro apertura ai movimenti più vitali della società civile (lo spiega bene Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza, 2020, pagg. 166 ss.).
Non era necessario ridurre il numero dei parlamentari per porsi con serietà questi problemi. Sarebbe grave non farlo adesso. Molti di quelli che hanno ragionato sul referendum possono ritrovarsi in questo, al di là della divisione sul sì e sul no, ormai superata. Il grande interrogativo è se esistano le condizioni e la volontà politica per progressi reali, normativi e non, in questa direzione. Se, come molti sostenitori della riforma hanno detto, il vero motore di essa non era l’antipolitica, sarebbe ora di dimostrarlo coi fatti.
* docente di Istituzioni di diritto pubblico, facoltà di Economia, campus di Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore
Foto in alto di Umberto Battaglia