Torna per il quattordicesimo anno di fila “Fa’ la cosa giusta”, la prima e più grande fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, che si svolgerà dal 10 al 12 marzo nei padiglioni 3 e 4 di Fieramilanocity.  

Come negli ultimi anni, a prendere parte a questi tre giorni di eventi, laboratori ed incontri, vi sarà lo stand del corso di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo dell’Università Cattolica, dove si potranno ricevere informazioni sul corso di Laurea magistrale, ma anche più in generale sull’offerta formativa della facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Ateneo. Gli studenti, coordinati dai professori del corso, proporrano una serie di laboratori e di incontri su temi legati ai loro studi (vedi a lato il programma).

Marco CaselliMarco Caselli (qui a lato), professore della facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica e anima dell’iniziativa, non ha dubbi: «Partecipare attivamente come corso di laurea a “Fa’ La Cosa Giusta” significa farsi conoscere a un’ampia platea di soggetti interessati ai temi della solidarietà e della giustizia sociale, con l’opportunità di creare relazioni e avviare collaborazioni con altre realtà interessate alle medesime tematiche. Ma significa anche offrire un servizio a chi parteciperà ai nostri eventi, valorizzando l’impegno e le competenze dei nostri studenti che li hanno progettati e animeranno tutte le iniziative da noi proposte nei tre giorni di Fiera».

La partecipazione attiva degli studenti è infatti stata fondamentale. «È una grande opportunità per entrare in contatto con realtà affini al nostro corso di laurea e ai nostri studi e per stabilire un ponte tra il nostro presente da studenti e il nostro futuro da cooperanti» afferma Martina Scrivani, studentessa della magistrale in Cooperazione vede nell’iniziativa. «Fa’ la cosa Giusta è anche un’ottima occasione per sensibilizzare i giovani su questi temi, unendo divertimento e consapevolezza, per fare in modo che i ragazzi istruiti di oggi diventino gli adulti consapevoli di domani».

Ed è evidente come ci sia sempre più bisogno di maggior informazione e sensibilizzazione, perché, come fa notare il professor Caselli, «malgrado vi sia una consapevolezza abbastanza ampia del fatto che sono sempre di più e sempre più rilevanti i problemi che, globali per estensione, richiedono una risposta che va oltre le possibilità del singolo stato, la cooperazione internazionale non raggiunge ancora livelli di efficacia realmente soddisfacenti. Se parliamo di cooperazione allo sviluppo, le risorse a essa destinate dagli Stati sono ancora molto lontane, dal punto di vista quantitativo, dagli impegni più volte presi».

Inoltre, in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, non si può più credere che problemi come sviluppo e sottosviluppo si possano risolvere solo localmente. «La soluzione a questi problemi, che pur si manifestano a livello locale, si inserisce in una fitta rete di relazioni e interdipendenze nella quale anche noi Paesi e cittadini del Nord del mondo siamo inseriti» spiega Caselli. «E i Paesi più sviluppati devono sempre tener presente che quello dello sviluppo è un gioco a somma positiva, da cui tutti possiamo trarre vantaggio in termini di maggiore benessere materiale, maggiore sicurezza, maggiore salute e migliore tutela dell’ambiente».

Cooperazione, infatti, non va fraintesa con l’aiuto o peggio con l’elemosina e la beneficenza, puntualizza il professore. «Cooperazione significa letteralmente “fare insieme”, in un percorso che valorizzi le competenze e le capacità di tutti i soggetti coinvolti e che porti beneficio a tutti i soggetti coinvolti». La cooperazione non va nemmeno ridotta al settore dell’aiuto umanitario. «Cooperare allo sviluppo significa, invece, perseguire l’obiettivo dello sviluppo in tutti quegli ambiti in cui si verifica un’interazione fra soggetti diversi che può avere ricadute sullo sviluppo stesso».

Silvia TuratiLa cooperazione, inoltre, non si esaurisce solo nell’azione umanitaria sul campo, ma prevede anche un livello micro che si può sperimentare nel quotidiano. Silvia Turati (nella foto a lato), anche lei studentessa della laurea in Cooperazione, che fin dal suo primo viaggio in Palestina ha capito che nella vita avrebbe voluto dedicarsi al tema dei diritti umani, ne è sicura: «Ciascuno di noi nel suo vivere quotidiano può fare esperienza del significato del verbo cooperare, che si concretizza non nel “fare per gli altri”, ma piuttosto nel “fare con gli altri”: un vero e proprio stile di vita, che guida e orienta le nostre decisioni personali. E per essere un buon cooperante nella vita di tutti i giorni occorre avere l’umiltà di riconoscersi piccoli e la capacità di aprirsi all’altro da noi, diverso ma prezioso in quanto è solamente attraverso il confronto e la collaborazione che ciascuno di noi può arricchirsi».

Ma anche la cooperazione ha le sue trappole e ambiguità che rischiano di minarne il vero obiettivo, che è di migliorare le condizioni di vita delle persone e di garantire a ogni uomo e donna una vita libera dall’indigenza. «Pensare che la cooperazione internazionale debba essere potenziata per porre un freno ai flussi migratori verso il nostro continente è ambiguo» fa notare il professor Caselli. «Questa idea dell’“aiutiamoli a casa loro” non tiene conto che l’ondata migratoria degli ultimi due anni proviene per lo più da Paesi in guerra o caratterizzati da regimi politici oppressivi: poiché il problema principale non è il sottosviluppo economico ma una condizione di grave insicurezza, appare problematico anche solo ipotizzare l’avvio di percorsi di sviluppo stabile e duraturo. D’altra parte, è evidente che per emigrare siano necessarie risorse, che spesso mancano e che invece un maggior sviluppo rende più disponibili aumentando, e non diminuendo, l’emigrazione».

E così, proprio oggi in un mondo in cui i flussi migratori sembrano inarrestabili, parlando di immigrazione è necessario parlare anche di integrazione, che vede coinvolte diverse scuole di pensiero, tra chi promuove politiche di apertura e chi invece tende a voler chiudere le frontiere.

Martina, che fin da piccola nutriva il forte desiderio di poter aiutare gli altri, è convinta che per risolvere il problema non serva a niente chiudere le frontiere, poiché «la vera sfida, non consiste nel bloccare chi è ritenuto “indesiderato”, quanto nel permettere a chi fugge da situazioni di emergenza o di estrema povertà di entrare a far parte di una comunità estranea, con regole e stili di vita diversi». Secondo la studentessa «è nostro compito accettare questa nuova realtà e aprire i nostri orizzonti culturali, uscendo dall’idea di Stato nazione statico ed entrando in quella di un mondo sempre più interconnesso e dai confini labili e sfumati, in cui si devono superare le proprie paure e la propria diffidenza verso l’altro, trovando dei punti di connessione e di dialogo».

Ma dimenticare le proprie paure e la diffidenza verso l’altro non è sempre così facile, ed è proprio per questo che la prima caratteristica del buon cooperante deve senz’altro essere la capacità di ascolto. «Fondamentale è anche la consapevolezza che cooperare non significa imporre all’altro la propria volontà e i propri progetti, partendo da una presunzione di superiorità bensì la capacità di lavorare insieme, valorizzando i contributi che tutti possono portare alla definizione e realizzazione di un progetto» sottolinea Marco Caselli. «È necessaria, poi, la conoscenza dei contesti su cui si va a intervenire, perché per una buona cooperazione non basta la buona volontà, ma servono anche competenze specifiche».

Competenze che Martina e Silvia durante il loro percorso di studi stanno acquisendo per costruire un domani la società del futuro, basata su un ideale di bene comune, senza pregiudizi o individualismo. «Il buon cooperante - ricorda Martina - è aperto a nuove sfide e a nuove culture, è dinamico, ha spirito di adattamento e d’iniziativa, tanta pazienza e crede nei propri progetti, anche se a volte possono essere frustranti. E soprattutto è colui che ha fiducia in quello che fa e pensa che ci sia speranza anche nelle situazioni più drammatiche».