Continua il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
di Paolo Maria Rossini *
Non mi sono mai personalmente occupato di “intelligenza artificiale”, ma utilizzo da decenni sistemi computerizzati sempre più sofisticati per la diagnostica clinica delle malattie neurologiche e per lo studio della funzione del cervello. Negli ultimi 20 anni, infine, ho lavorato a stretto contatto con gruppi di ricercatori – ingegneri, fisici ed informatici in primis – che sviluppano sistemi d’interazione Uomo/Macchina/Ambiente soprattutto per applicazioni di domotica in situazioni di gravissime patologie neurologiche che non permettono al paziente di accendere o spegnere un interruttore, di spostarsi da una stanza all’altra della propria casa, di bere e nutrirsi autonomamente, di far partire un elettrodomestico o di aprire la porta di casa o di una stanza, o di parlare/leggere/scrivere. Infine ho svolto un ruolo di una qualche importanza in esperimenti di “mano bionica” o “robotica” o “artificiale” (tutti sinonimi di volta in volta utilizzati dai media) per esperimenti con la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, il Politecnico di Losanna e l’IRCCS S. Raffaele Pisana di Roma in pazienti che avevano subito l’amputazione traumatica del braccio e della mano.
Le riflessioni che mi sento di condividere da queste esperienze sono le seguenti: 1) Come in altri ambiti della scienza anche in questo caso non esistono scoperte buone o cattive, ma è buono o cattivo l’utilizzo che di esse fa l’uomo. Se la mano robotica viene a sostituire un arto perduto e se la sua funzione è sostanzialmente molto vicina a quella di una mano ‘normale’ allora va benissimo. Se si pensa invece a un’applicazione militare che mira ad aumentare la forza, la destrezza e la velocità di esecuzione di militari umani resi “superman” da queste tecnologie allora è tutta un’altra musica. Quindi, non ho alcun timore delle ricerche portate avanti in questo ambito, ma ho molto timore dell’utilizzo che se ne potrà fare e non mi stancherò mai di richiamare il massimo dell’attenzione da parte della comunità scientifica e di tutta l’opinione pubblica in questo senso.
2) Un sistema artificiale avanzato è in grado di apprendere velocemente e di accumulare una quantità di informazioni che nessun cervello umano è in grado di accumulare e – cosa ancora più importante – di richiamare in tempi rapidissimi al momento giusto per prendere le decisioni necessarie. È quindi comprensibile che una ‘rete neurale’, un sistema di analisi computerizzato o quello che volete voi, sarà sempre più rapido e preciso (e soprattutto non andrà mai incontro all’”errore” tipico dell’essere umano quando è stanco o distratto da altri pensieri) e quindi svolgerà un ruolo sempre più utile nella diagnostica sia che si tratti di analisi di immagini, che di segnali, che di pattern di organizzazione dei dati, che di analisi di enormi quantità di dati. È però sempre importante che ci sia un momento di supervisione e di validazione umana perché l’errore dell’intelligenza artificiale – quando c’è – tende a riproporsi costantemente in presenza delle medesime situazioni. Sta all’uomo identificarlo e correggerlo evitando ricadute dannose sulla salute umana.
3) La precisione di movimento di cui è capace una struttura robotica è inimmaginabile per la mano dell’uomo. Per esempio i robot non tremano, mentre anche il chirurgo più glaciale e addestrato ha un tremore fisiologico delle mani e ha un campo di visione che è limitato a quello fornitogli dai suoi occhi. I robot chirurgici già oggi, ma sempre di più in un prossimo futuro, potranno non solo garantire operazioni più rapide e con un territorio chirurgico molto limitato, ma potranno avvantaggiarsi di informazioni simultaneamente provenienti da sistemi di immagine, da esami ematici e dal monitoraggio dei parametri intra-operatori, come pure comparare le “sensazioni” che loro provengono dal contatto con il tessuto patologico (per esempio, un tumore) con un’enorme banca-dati che aiuta a indirizzare l’estensione della resezione e la tipologia dell’intervento.
4) Leggendo i segnali del cervello – per esempio un elettroencefalogramma – si può in teoria identificare un pattern di ritmi e di connessioni cerebrali che sottendono l’esecuzione più o meno ottimale di un determinato compito. In altre parole, quello che stiamo per compiere e come lo stiamo per compiere, è già tutto scritto nell’attività del nostro cervello che precede di secondi o minuti quella determinata decisione, quella determinata scelta, quella determinata azione motoria, quella determinata sensazione ed emozione. Una cosa straordinaria che sta svolgendo un ruolo sempre più importante nelle applicazioni dell’interazione Uomo/Macchina/Ambiente, ma anche molto, molto inquietante. Sarebbe magnifico aiutare pazienti con gravissime neuro-lesioni acquisite ed evitare gli errori che vengono talvolta commessi da operatori che svolgono compiti complessi (medici, piloti, conduttori di treni, navi etc.), ma le applicazioni “insane” potrebbero essere moltissime: dall’identificare soggetti che si differenziano dal pensare comune, all’indirizzare la scelta dei consumatori verso le volontà del “mercato”, all’orientare i giocatori in Borsa e quant’altro.
Ancora una volta l’Umanità è posta di fronte al dilemma di come utilizzare una scoperta o una serie di scoperte; se per il bene comune e per una società migliore, o per il guadagno e il tornaconto di pochi a discapito di tutti gli altri. L’intelligenza artificiale – purtroppo – non ci renderà né più buoni, né più intelligenti!
* docente di Neurologia all'Università Cattolica e direttore dell'Area neuroscienze della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli
Settimo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando. Domani sarà pubblicato il contributo di Massimo Marassi, docente di Filosofia teoretica