Una figura carica di molte responsabilità ancora tutte da esplorare. La conferenza promossa dal’Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli (Asag) e dal master in Sport e management psico-sociale lo scorso 15 aprile, nella sala della Gloria della sede bresciana, ha messo al centro il ruolo dell’allenatore sportivo e ha “convocato” a discuterne moltissimi ospiti e testimoni del mondo sportivo. Una professionista che ricopre funzioni fondamentali per la promozione di valori positivi e che, a seconda della categoria a cui si trova a lavorare e del livello agonistico, ricopre funzioni che vanno oltre la sola dimensione tecnica. Eppure una figura in crisi, come ha spiegato Caterina Gozzoli, responsabile scientifica del master: «C’è una crescente domanda di aiuto al mondo accademico per imparare a gestire un gruppo, soprattutto nei settori giovanili».

Per migliorare la qualità del suo servizio bisogna rafforzare la personalità dell’allenatore. Uno dei fattori fondamentali per un buon funzionamento della relazione con la squadra è la comunicazione, come ha affermato Massimo De Paoli, allenatore allievi nazionali del Brescia Calcio. «Il suo ruolo deve valorizzare l’ascolto e l’osservazione, creando un ambiente che favorisca lo sviluppo e la crescita dei più giovani».

Tuttavia in alcune discipline le società investono molto negli allenatori della prima squadra, ma pochissimo nel settore giovanile: un fenomeno che tradisce la mancanza di cultura nella ricerca dei talenti e la scarsa capacità di investire sul lungo periodo anziché nel ritorno immediato d’immagine. La denuncia è di Adriano Furlani, allenatore della squadra di basket Centrale del Latte Brescia, che ha lasciato aperto lo spiraglio per una inversione di tendenza tra alcune grandi società, ma ha subito detto che, soprattutto nel settore calcistico, pochissimi si stanno muovendo. Per Furlani l’allenatore deve saper scegliere il proprio staff di collaboratori con cui “parlare la stessa lingua”, tenendo in considerazione la motivazione al lavoro e le competenze tecniche specifiche. Anche l’aspetto della gestione dei conflitti è molto importante: l’allenatore può acquisire gli strumenti grazie a una formazione specifica oppure si può affidare a persone esterne come motivatori o consulenti. Molti allenatori nel mondo del calcio provengono dall’esperienza giocata e si crea una specie di casta, ma non è così per tutti gli sport. Nel basket, per esempio, il background formativo e culturale degli allenatori è diverso da quello degli atleti. E per Furlani non è un male.

Tuttavia c’è chi dopo una carriera da giocatore professionista, come Roberto Calcaterra, capitano della squadra di Pallanuoto Brixia Lake Iseo, che dopo tre partecipazioni alle olimpiadi nella nazionale azzurra, ora vuole trasferire e tramandare la sua esperienza di atleta alle generazioni giovanili. Calcaterra sogna un futuro da dirigente sportivo e insieme al suo allenatore, Alessandro Bovo, ha iniziato a promuovere stage estivi per ragazzi. «Dal mio allenatore – dice Calcaterra – non mi aspetto solo competenze tecniche, ma che sia soprattutto un bravo gestore del gruppo, abbia carisma e autorità e sia sostenuto in questo dalla società».

Tutti gli ospiti presenti alla conferenza, atleti, allenatori, cronisti sportivi come Maurizio Compagni di Sky hanno messo in evidenza che gli allenatori hanno competenze anche fuori dal settore sportivo e spesso hanno avuto esperienze nel settore educativo. Un esempio è la carriera di Donato Daldoss, allenatore del settore giovanile rugby Calvisano, che dopo aver giocato nella nazionale italiana di rugby non proseguì con la carriera di allenatore, ma intraprese un percorso come insegnante di educazione fisica ed è tutt’ora nell’organico di un liceo a indirizzo sportivo.

A chiudere la carrellata di sportivi non poteva mancare la testimonianza di un giovanissimo, Fabrizio Paghera, classe 1992, giocatore del Brescia Calcio: il punto di vista, cioè, di chi viene plasmato da un allenatore e vede nel suo coach un tecnico ma anche un maestro.