«Tutti noi abbiamo avuto tanti professori universitari, ma pochi, pochissimi maestri: la differenza sta negli uomini». Queste parole di Giuseppe Frasso hanno concluso la celebrazione del centenario della nascita di Giuseppe Billanovich, che si è tenuta il 28 novembre 2013 nella cripta dell’aula magna dell’Università Cattolica a Milano. A recare testimonianza dell’alto magistero del filologo, tra i più illustri del nostro ateneo, sono stati i suoi allievi di un tempo – tra i quali, oltre a Frasso, anche Mirella Ferrari e Andrea Canova – e alcuni colleghi e collaboratori, le cui relazioni commemorative ne hanno delineato un ritratto che ha restituito, oltre alla statura dello studioso, anche la dimensione dell’uomo.

Perché Giuseppe Billanovich fu – come ha ricordato Michael Reeve, docente all’Università di Cambridge – un filologo tenace, come dimostra l’apparato di fonti della monumentale edizione dei Rerum Memorandarum libri di Petrarca. Uscita a Firenze nel 1942 in edizione provvisoria per Sansoni e poi definitivamente nel 1945, fu allestita in tempi in cui, senza i moderni mezzi informatici, una ricerca del genere era una fatica abnorme, ma «è difficile immaginare un modo migliore di immergersi nel materiale storico a disposizione del Petrarca e nelle sue capacità di sfruttarlo».

Sono lavori, quelli di Billanovich, che creano un’ossatura ancora imprescindibile per le ricerche di oggi: dal Petrarca letterato del 1945 per le Edizioni di Storia e Letteratura di Don Giuseppe de Luca, ai contributi fondamentali sulla tradizione dei testi classici. Tanto è vero che Marco Petoletti ha allestito, proprio sul testo di Billanovich, una nuova traduzione dei Rerum Memorandarum, uscita nel 2012 per Le Lettere di Firenze.

Ma non si tratta, ancora secondo Reeve, «di monumenti di fronte ai quali inchinarsi», bensì di punti da cui ripartire: «Come asserisce Max Weber nei sui contributi di Il lavoro intellettuale come professione, in campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci, venti, cinquant’anni il suo lavoro verrà superato: non è solo il nostro destino, deve essere il nostro scopo».

Resta, ed è immortale, il metodo, che indica la direzione alle generazioni future: «la capacità», che ha ricordato Antonio Manfredi della Biblioteca Apostolica Vaticana «di instaurare relazioni tra libri e persone, tra libri e biblioteche»; il modo nuovo di guardare le biblioteche «non come magazzini ordinati ma come laboratori di trasmissione e di studio e i bibliotecari non solo come conservatori e interposte persone, ma come interlocutori a tutti gli effetti»; l’approccio di studio ai libri stessi, con un’attenzione – sottolineata da Mirella Ferrari che ha ripercorso la bibliografia dello studioso, in corso di stampa nella versione completa e aggiornata nel prossimo numero di “Aevum” – rivolta, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, agli esemplari postillati.

Strenuo nell’esercizio della sua disciplina, Billanovich lascia un insegnamento importante anche nella dimensione civile: appartenente alle file della Fuci nei suoi anni giovanili, non ebbe esitazioni – ha raccontato Andrea Canova nel suo intervento sugli studi folenghiani del filologo – a recensire come meritava il libro che Umberto Renda aveva pubblicato nel 1936 su Teofilo Folengo: «Era un ragazzo di 24 anni, che da poco aveva ottenuto una cattedra di liceo, contro un uomo potente del regime, che avrebbe potuto distruggergli la carriera con una sola telefonata. Da Billanovich c’è da imparare anche il coraggio».