Quando Thomas Watson senior, fondatore dell'Ibm, lo ricevette nel suo studio, a New York, per comunicargli che il progetto era impossibile da realizzare, padre Roberto Busa, gesuita, gli porse un cartoncino prelevato dalla sala d'aspetto e gli lesse lo slogan coniato dai pubblicitari dell'azienda americana: "Le cose difficili le risolviamo subito, quelle impossibili le facciamo poco dopo". Poi aggiunse: «Le sembra corretto definire irrealizzabile quello che non si è mai provato a fare?». La storia della linguistica computazionale, disciplina scientifica a metà strada tra l'informatica e gli studi umanistici, è iniziata con questa battuta e presto porterà alla traduzione in linguaggio contemporaneo dei concetti espressi da san Tommaso d' Aquino nella sua intera opera. Thomas Watson quella mattina del 1949 rimase colpito dalla prontezza del sacerdote italiano e gli mise subito a disposizione le sue macchine. «A una condizione però - aggiunse il fondatore dell'Ibm - mi deve promettere che non cambierà il nome International Business Machine in International Busa Machine».

Ormai sono passati più di cinquant'anni, e la linguistica computazionale è considerata una disciplina scientifica. Padre Roberto Busa ne è il fondatore, e l'ha insegnata per anni agli studenti dell'Università Cattolica di Milano. Il suo nome di recente è comparso sul supplemento dell'Enciclopedia Treccani, dove viene definito come "il pioniere dell'intelligenza artificiale in campo linguistico".

Padre Dusa, quando iniziò a prendere corpo il suo progetto scientifico? Nel 1942, durante la seconda guerra, i superiori mi inviarono all'Università Gregoriana di Roma per prepararmi alla libera docenza in filosofia col tema di studiare in san Tommaso d'Aquino la dottrina della "presenza". In pratica dovevo esaminare l'opera omnia del filosofo. Dopo sei mesi di lavoro mi accorsi che tale parola nel lessico dell' Aquinate è periferica, mentre è centrale la preposizione "in". Ricominciai quindi da capo, scrivendomi a mano in 10.000 schede altrettante frasi contestuali di questa proposizione. Ne uscì un libro che pubblicai. Ne vennero fuori anche due certezze. La prima, della pregnanza filosofica delle particelle; la seconda, che l'analisi linguistica di testi di grandi dimensioni non poteva essere compiuta che con macchine automatiche.

E così non appena si presentò l'occasione partì per gli Stati Uniti? Partii nel 1949. Per trovare macchine in grado di fare ciò che immaginavo dovetti visitare una quarantina di università da costa a costa finché, tramite la Library of Congress, Jerome Wiesner del Mit di Boston, mi indirizzò all’Ibm di New York. Iniziò così un'avventura che dura da mezzo secolo. Oggi l'opera omnia di san Tommaso è ancora all'avanguardia: è l'unico testo di grandi dimensioni in cui le parole (11 milioni), tutte e singole, siano state provviste di centinaia di ipertesti interni che ne specificano lemma, morfologia, tipologie, omografie, tipo semantico, segmentazione e ubicazione. Questo lavoro immane, noto come Index tomisticus, condensato in venti nastri magnetici, venne pubblicato nel 1989 in 56 volumi formato enciclopedia, per un totale di 70.000 pagine, e nel 1992 nei 1,6 giga bytes compressi in un solo cd-rom.

L'Index tomisticus era però solo la prima fase. Adesso c'è una nuova tappa: tradurre in lingua contemporanea i concetti espressi dall'Aquinate... Il lessico dell'Aquinate è enorme: sono 150.000 parole diverse, ed è enciclopedico: riassume quaranta secoli di civiltà mediterranea: ebraica, greca, romana, cristiana e araba. Con un'udienza del Santo Padre il primo febbraio di quest'anno abbiamo aperto le attività del Lessico tomistico biculturale, un'iniziativa internazionale di ermeneutica computerizzata su rete per tradurre "concettualmente" tutte e singole le voci del vocabolario di san Tommaso nelle lingue moderne. "Lessico tomistico" perché si riferisce a tutte le parole presenti negli scritti di san Tommaso e in quelli a lui attribuiti; "biculturale" perché traduce la cultura enciclopedica del filosofo medievale nelle espressioni proprie della lingua moderna. Ne porto solo due esempi: "orda ordinis" in san Tommaso va tradotto non solo con "ordine" ma anche spesso con "organizzazione e "programmazione", "sistema e struttura", "tassonomia e classificazione". E con "ratio seminalis" san Tommaso esprimeva quei concetti che noi oggi esprimiamo con "programma genetico": non conosceva il Dna (allora non c'erano i microscopi elettronici), ma aveva capito che qualcosa ci deve essere che ne svolga le funzioni.

Nel 1950 padre Gemelli assistette a una dimostrazione del suo lavoro sui primi computer. Cosa ricorda di quel giorno? Non ricordo esattamente la data, ma tra il '50 e il '54, d'accordo col professor Giancarlo Bolognesi, con l'Ibm facemmo in Cattolica una dimostrazione di analisi linguistica su macchine Ibm a schede per forate. Era presente padre Gemelli, già sulla sedia rotelle. Ricordo bene la sua figura e la sua prontezza intuitiva di fronte alle novità tecnologiche: pareva che non ci fosse nulla di cui non dicesse: «Lo so già».

Lei ha lavorato molti anni con i computer, ma quali sono le altre esperienze forti della sua vita? Se mi chiedete i ricordi degli anni della guerra, per la verità non ne parlo volentieri: son pagine di vita scritte, spero, nel libro che sarà pubblicizzato in Paradiso. E comunque si trattò sempre di molto meno di quanto fecero tanti altri miei confratelli sacerdoti. Comunque, come si usa dire, ne ho fatte di tutti i colori. Sono stato per un anno cappellano della Contraerea di Torino. Poi in Valtellina, di domenica, celebravo la messa per i tedeschi e i fascisti, mentre durante la settimana, a loro insaputa,nei boschi sulle montagne per i partigiani. Uno di loro era ferito e piantonato all'ospedale: appena guarito, lo avrebbero fucilato. D'intesa con una suora ne organizzai la fuga.

C'è qualche episodio che ricorda in particolare? In Lombardia, poco prima che la guerra finisse, i tedeschi avevano una prigione piena di partigiani. Così andai al comando tedesco più vicino e dissi loro chiaramente: per voi qui ora è la fine, lasciate che noi organizziamo la fuga dei partigiani e noi provvederemo a voi nell'ora del vostro pericolo. E così fu: nei giorni tra il 25 aprile e l'arrivo degli americani, nascondemmo tutto quel comando a casa nostra. La stessa in cui tempo prima avevamo ospitato alcuni ebrei. La cosiddetta caserma dell'aeronautica, occupata dai tedeschi, resisteva ancora: li convinsi ad arrendersi a me, li trattenni alcune ore, finché potemmo consegnarli, dietro loro preghiera, ai partigiani azzurri. Accolti e protetti in una scuola, vennero poi a unirsi a quelli di quel comando e fu molto bello vederli partire tutti, armati sui loro automezzi, pacificamente verso la Svizzera. Uno mi si era avvicinato dicendomi: «Ego sum sacerdos». Era un monaco tedesco, in prigione in quella caserma, perché sorpreso a celebrare segretamente la messa. Me lo portai a casa, lo vestimmo da sacerdote e in seguito lo consegnammo ai superiori dell'ordine di Roma. Quel monaco era un benedettino, apparteneva all'ordine che qualche secolo prima si era preoccupato di tramandare con lavoro amanuense l'intera opera di san Tommaso. In un certo senso si trattò di una premonizione.