Casi di cronaca a parte, oltre lo scandalo non sono tanti i casi in cui l’opinione pubblica si mobilita  a difesa della popolazione carceraria. Eppure il vero problema non sono le carceri sovraffollate ma, in primis, la garanzia dei diritti minimi dell’individuo, quei diritti che possano garantirgli dignità nonostante il reato commesso. È nato anche a questo scopo il libro Delitti e Castighi, scritto dalla giornalista del Sole-24 Ore Donatella Stasio e da Lucia Castellano (foto sotto), direttrice del carcere di Bollate, che ha tenuto una lezione agli studenti lo scorso 15 dicembre. La struttura milanese, esempio ed esperimento di carcere alternativo, rischia di essere una cattedrale nel deserto: una delle poche strutture che hanno fatto della crescita morale della propria popolazione un elemento di novità e di distinzione. «La situazione critica - spiega la Castellano - parte dalle dimensioni delle carceri e dalla qualità della vita interna: sono mondi molto spesso indifferenti alle persone che lì vivono». Sono 207 infatti gli istituti di pena, suddivisi in case circondariali e case di detenzione, tra macropenitenziari con più di 2000 reclusi e carceri più piccole che a malapena raggiungono le 30 unità. Poggioreale, San Vittore, Secondigliano hanno gravi problemi di tipo logistico: quasi inesistenti gli accorgimenti minimi per una civile convivenza, a partire dalla scarsa areazione delle celle o dagli spazi minimi dedicati allo svolgimento delle attività ricreative. Altre realtà molto più piccole, quali le carceri di Favignana o Savona, propongono alloggi ancora più scomodi con celle umidissime collocate a più metri sotto il livello del mare. Per non parlare del carcere di Cassino dove non esistono veri e propri sentieri per arrivare alle celle.

«In carcere non abbiamo bisogno di particolari privilegi, come spesso la gente erroneamente crede ma di una maggiore attenzione all’organizzazione e al minimo comfort. Né ville, né alberghi: solo posti decenti dove vivere dignitosamente e dove avere spazi che permettano la realizzazione di un percorso educativo sano e concreto». In molti complessi carcerari, dove la struttura prefabbricata è più simile a cubi di cemento che non a un luogo di “redenzione”, bisognerebbe riprogettare gli spazi abitativi e renderli a misura d’uomo. L’apparato normativo italiano è effettivamente garantista di queste condizioni minime, basti pensare alla costituzione e al regolamento penitenziario del 2000: entrambe, di diritto, assicurerebbero garanzie minime di vita dignitosa. Il carcere di Bollate sta tentando di fare proprio questo: valorizzare le leggi esistenti e avvicinarle alla prassi, partendo dal principio rieducativo della persona. «Non vogliamo far vivere al detenuto lo stesso giorno moltiplicato per 1.095 ma permettergli di vivere una quotidianità in cui esistano ritmi variabili, attività interessanti, progetti educativi di cooperazione e crescita». Carcere come possibilità di scontare la propria pena in maniera alternativa, insomma. E i 1.030 detenuti di Bollate stanno provando questo esperimento di convivenza costruttiva. «Se guardiamo al tasso di recidività di chi esce dopo aver scontato la pena, possiamo notare che la proporzione di chi delinque ancora è di gran lunga superiore quando il detenuto non ha vissuto una carcerazione flessibile: si attesta circa al 68% degli ex detenuti».

Il libro della Castellano vuole fornire spunti di riflessione proprio su questa opportunità, ridefinendo il rapporto gerarchico tra funzionari e carcerati: a un rapporto di comando/obbedienza sarebbe da preferire un rapporto che analizzi le singole personalità e costituisca un percorso rieducativo specifico. «È ciò che dal 2002 mi impegno a fare per Bollate perché ritengo che un’educazione  formale basata sul consenso automatico agli ordini impartiti dai superiori sia controproducente», aggiunge la Castellano. La poca attenzione alla dignità della persona e alla crescita personale è alla base dei numerosi suicidi della popolazione carceraria: dal 2009 sono 69 le vittime tra detenuti e poliziotti, estenuati dalle condizioni proibitive delle carceri. Lo sforzo per cambiare lo stato delle cose è l’obiettivo di progetti nuovi quali quello di Bollate: sensibilizzare l’opinione pubblica affinché capisca che condizioni di vita migliori non significano un affrancamento dalla pena di cui ci si è resi colpevoli. Probabilmente è solo la possibilità di scontarla diversamente.