Ren YanliIl dialogo con le autorità politiche non registra passi in avanti, ma la crescita del numero dei cristiani tra la popolazione fa ben sperare. È questa la fotografia del rapporto tra Stato e Chiesa nella Repubblica popolare cinese, secondo il professor Ren Yanli, professore emerito dell’Accademica cinese delle Scienze sociali, laurea in lingua italiana a Pechino e uno studio approfondito di scienze religiose alle spalle. La Cina e il cattolicesimo fra tolleranza, comunità religiosa e ingerenze del governo Popolare erano i temi dell’incontro che si è tenuto lo scorso 27 ottobre nella sede di via Nirone della Cattolica. «Per rispondere alla domanda riguardo la libertà di culto in Cina - ha spiegato Yanli, dopo l’introduzione dello storico Agostino Giovagnoli e della docente di storia della Cina contemporanea Elisa Giunipiero - è necessario chiarire cosa intendiamo per libertà. Se un cittadino cinese desidera frequentare la chiesa può farlo ma, per quanto riguarda l’organizzazione collettiva dei culti, la politica interviene sempre».

La questione diplomatica fra Cina e Vaticano scoppia nel 1952, da quando il nunzio apostolico viene espulso da Pechino e la Santa Sede riconosce Taiwan come unica e legittima repubblica cinese. Nel 1957 nasce l’Associazione patriottica cattolica che rinsalda il legame con il governo, determinando la nascita di una gerarchia ecclesiastica riconosciuta da Roma ma non da Pechino. Così, oggi, nel Paese, esistono due Chiese, una sotterranea, composta da sacerdoti non autorizzati al culto dal governo cinese, e una ufficiale tollerata da Pechino. La situazione è tale che, secondo l’annuario pontificio, le 150 diocesi sul territorio cinese sono ufficialmente vacanti, ma di fatto buona parte dei vescovi di nomina governativa ha richiesto, in segreto, il consenso papale.

«Per la politica di Pechino - sottolinea Ren Yanli - la nomina dei vescovi è un atto di rilevanza pubblica. Per questa ragione il governo seleziona i prelati. Tuttavia, penso che la scelta debba spettare alla comunità religiosa, alla Santa Sede, magari definendo una rosa di nomi d’accordo con i funzionari del partito».

Il concerto in onore di papa Benedetto XVI organizzato nel 2008 dall’orchestra filarmonica cinese sembrava un passo piccolo ma significativo nel percorso diplomatico di avvicinamento. Ma dopo due anni anche quell’episodio appare più un evento di sottile propaganda, magari in previsione dei giochi olimpici che avrebbero in seguito acceso i riflettori su Pechino, piuttosto che un momento concreto di distensione. «Molto onestamente - continua rammaricato il professore Yanli - non credo che i rapporti formali riusciranno a trovare un equilibrio. Dopo un periodo di entusiasmo anch’io ho capito che l’autorità cinese resta sorda ai richiami di pacificazione. Ho molte speranze invece per quel che riguarda la sostanziale diffusione del cristianesimo: il numero dei fedeli è in aumento e il senso di religiosità è diffuso».

Una storia segnata dalle religioni, quella cinese, che nel suo immenso territorio ospita cinque confessioni distribuite fra gli oltre 1 miliardo e 300 mila cittadini. Le dottrine storiche più diffuse - taoismo, confucianesimo e buddhismo - grazie alla loro tendenza filosofica, hanno reso il tessuto culturale aperto, flessibile e tollerante. In Cina il potere temporale non è mai stato confuso con la forte e diffusa sensibilità religiosa. «Confucio - conclude Ren Yanli - diceva: “Non conosco bene neppure la vita, come posso dire cosa accadrà dopo la morte?”. Una frase che rivela una sensibilità aperta al sincretismo. Spesso i cinesi non distinguono fra i riti delle tre confessioni principali. Talvolta mi è capitato di osservare alcuni credenti andare in chiesa e poi pregare davanti ai templi buddhisti. Anche questo è sintomo di una predisposizione spirituale aperta e curiosa».