Un intervento di aiuto nei campi profughi siriani in Libano. Il progetto “Tutori di resilienza” del Centro di Ateneo per la Solidarietà internazionale (Cesi) è approdato nel Paese dei Cedri. Da maggio, per cinque mesi operatori formati in loco lavoreranno soprattutto con i minori per promuovere la loro capacità di risollevarsi dagli eventi traumatici per riorganizzare positivamente la propria vita.

Durante la prima missione, che si è svolta in Libano dal 18 al 23 maggio, Veronica Hurtubia e Alessandra Cipolla dell’Unità di Ricerca sulla Resilienza dell’ateneo hanno condotto un corso di formazione che ha coinvolto 25 operatori sociali provenienti dalla Siria e dal Libano, cui si affiancavano workshops creativo-espressivi con i bambini siriani rifugiati nel campo profughi di Shatila, a Beirut.

«Il nostro lavoro - spiega Veronica, tutor senior del progetto - ha l’obiettivo di formare personale locale capace di promuovere la resilienza tra i bambini grazie a un supporto psico-sociale, attraverso attività ludiche che utilizzano linguaggi come il disegno, la musica, il teatro o la fotografia. In questo modo il bambino riesce a esprimersi attraverso altri canali, superando l’imbarazzo creato a volte dalla parola. Le lezioni con gli operatori hanno una parte teorica e una pratica, così gli adulti sperimentano di persona quello che poi insegneranno ai bambini».

«Abbiamo trovato un gruppo molto motivato - racconta Alessandra, neo laureata in Psicologia - partecipe e volitivo, costituito da persone di diversa provenienza religiosa (cattolici, cristiani maroniti, musulmani) ed è stato interessante vedere l’evoluzione di un gruppo così eterogeneo. Inizialmente le differenze erano più consistenti e visibili. Poi grazie al tempo trascorso insieme quotidianamente gli operatori sono riusciti ad avvicinarsi molto fra loro».

Durante la missione la mattina era impiegata nella formazione degli adulti, mentre il pomeriggio Veronica e Alessandra si dedicavano ai bambini di Shatila. «È necessario precisare - puntualizza Veronica - che Shatila non è un campo profughi temporaneo fatto di tendoni e container. È piuttosto un quartiere, visto ancora come un luogo degradato e pericoloso». Posto nella zona sud di Beirut, questo campo profughi è stato creato dalla Croce Rossa Internazionale nel 1948 per accogliere migliaia di migranti Palestinesi e oggi, dopo lo scoppio della guerra in Siria, la popolazione all’interno di Shatila è stimata fra le 10mila e le 22mila persone.

La realtà di Shatila è indubbiamente difficile e a soffrirne maggiormente sono i bambini che «sono sempre rinchiusi in spazi molto piccoli e caotici - spiega Veronica - e hanno sempre bisogno di sfogarsi. Occorre tenerli sempre d’occhio per evitare scontri tra loro e questo perché vivono in un contesto che, nonostante gli sforzi delle tante e valide associazioni che abbiamo incontrato, è difficile rendere a misura di bambino».

Alessandra, che per la prima volta partecipava a un progetto internazionale come questo, ammette: «Quando sono entrata a Shatila mi sono sentita impotente. Ho pensato che tornare a Milano sarebbe stato come abbandonare quei bambini». Ma, come dice anche Veronica, «lo scopo di questo importante progetto è quello di offrire alle figure educative locali strumenti e metodologie con le quali proteggere e promuovere il benessere dei bambini e delle famiglie siriane vittime di guerra. È in questo modo che contribuiamo a rendere migliore la vita di queste persone».