di Giuseppe Zecchini *

Costantino a MilanoIl cosiddetto editto di Milano del 313 è in realtà un rescritto, cioè una lettera imperiale indirizzata a un governatore provinciale, in cui gli augusti Costantino e Licinio confermarono nella sostanza l'editto promulgato a Serdica da Galerio due anni prima. Tale editto sospendeva la grande persecuzione promossa da Diocleziano nel 303 e garantiva la libertà religiosa a tutti e quindi anche ai cristiani, a condizione che nelle loro preghiere invocassero la salute per l'imperatore e l'impero. La principale differenza tra editto e rescritto sta nel tono di quest'ultimo, che non è più di concessione ai cristiani, ma di evidente simpatia nei loro confronti; inoltre sempre nel rescritto sono aggiunte disposizioni per restituire i beni confiscati alla Chiesa e ai suoi fedeli durante la persecuzione.

Come mai allora le misure confermate a Milano hanno preso il sopravvento su quelle prese a Serdica e la data del 313 è diventata così significativa nella memoria storica dell'Occidente riguardo al fondamentale tema della libertà religiosa?

Da un lato si potrebbe, anche legittimamente, ridimensionare la portata di quell'evento attraverso la sua contestualizzazione. La libertà religiosa degli antichi Romani non è quella dei moderni, perché essa non coinvolgeva la sfera privata, la religio in interiore homine, ma solo la sfera pubblica; si trattava di decidere se un'altra religione, la cristiana, potesse essere classificata come lecita, a fianco delle numerose altre professate nell'impero e - sia chiaro - in subordinazione alla religione ufficiale di Giove Capitolino; il cristianesimo creava difficoltà non perché fosse una religione monoteistica (lo era anche la religione mosaica, che era stata riconosciuta come lecita senza problemi), ma perché non era una religione etnica, bensì universale e, in quanto tale, potenziale concorrente del culto capitolino.

Dall'altro lato il 313 è più importante del 311 perché inscindibilmente legato alla figura di Costantino: nel 313 uno dei due imperatori che ribadisce la liceità del cristianesimo è egli stesso un cristiano, lo è probabilmente da qualche anno (310/311?), è in contatto con illustri vescovi di Spagna (Ossio di Cordova) e di Gallia (Marino di Arles) e con un intellettuale cristiano come Lattanzio, si sta formando convinzioni teologiche, che si tradussero nelle professioni di fede del 314 (lettera al concilio di Arles) e del 325 (l'Oratio ad sanctorum coetum nell'imminenza del concilio di Nicea). Al tempo stesso questo imperatore cristiano resta pontefice massimo di Giove e definisce se stesso epískopos tôn ektós, vescovo di coloro che sono fuori della Chiesa, cioè dei "pagani".

Ancor oggi noi siamo tutti eredi del principio sancito dalla pace di Westfalia del 1648 alla fine delle guerre di religione tra protestanti e cattolici: cuius regio, eius religio. Il cammino della modernità verso la cosiddetta tolleranza e la libertà di culto è passato attraverso il progressivo distacco da quel principio, che sanciva la necessità di una chiesa di stato (la chiesa per cui aveva optato il principe) e l'adesione di tutti gli abitanti di quello stato a quella chiesa: agli estremi di questo cammino restano emblematici i casi di Enrico IV, che si fece cattolico per poter regnare sulla Francia (‘Parigi val bene una Messa!'), e di Tony Blair, che ancora pochi anni fa' dovette aspettare di non essere più primo ministro britannico per poter annunciare la sua conversione al cattolicesimo.

Il modello costantiniano è agli antipodi di tutto ciò e ci si presenta come un esempio su cui vale la pena di meditare: Costantino seppe riunire nella sua azione lo scrupoloso rispetto per la religione altrui con un'attiva opera di promozione della religione cristiana; lo fece in nome di un pragmatismo politico, che doveva tener conto che il paganesimo era ancora largamente maggioritario, ma anche di convinzioni sincere e appassionate, com'era nel suo temperamento. In ultima analisi dietro la libertà religiosa sancita a Milano c'è la libertà di spirito di Costantino: anche un sacerdote di Giove poteva essere cristiano, restava pur sempre, come egli stesso avrebbe scritto l'anno dopo, nel 314, un servo di Cristo in attesa del Suo giudizio.

* docente di Storia romana alla facoltà di Lettere e Filosofia