Era il 2006 quando scattò “Gotha”, una delle più importanti operazioni condotte dalla polizia dello Stato contro la criminalità organizzata siciliana, che portò all’arresto di tutti i vertici delle cosche di Palermo e dei gregari dei capimafia. Dall’omonimo processo, che inflisse condanne per oltre 400 anni di carcere a 38 imputati accusati di mafia e confiscò beni per oltre 300 milioni di euro, il giudice Piergiorgio Morosini, autore della sentenza - oltre 1.500 pagine che raccontano reati, investimenti e traffici illegali di Cosa Nostra - trae spunto il libro: Il Gotha di Cosa nostra. La mafia del dopo Provenzano nello scacchiere internazionale del crimine (Rubbettino, 2009), 200 pagine suddivise in 6 capitoli, di cui solo l’ultimo dedicato ai rapporti tra mafia e politica.

I primi tre i capitoli ricostruiscono il dopo Provenzano, il quarto esplora la fiscalità mafiosa e il quinto analizza l’economia mafiosa e la giustizia penale. «Relegare all’ultimo la politica la dice lunga sui rapporti di governance innescati da Cosa nostra, che prima di tutto nascono da motivazioni economiche», spiega Marco Arnone, membro del Centre For Macroeconomics Finance Research. Parte da qui la riflessione della conferenza-dibattito moderata dal giornalista dell’Economist David Lane sul libro del gup di Palermo, che si è svolta lo scorso 10 novembre all’Università Cattolica di Milano. È lo sviluppo economico che sta alla base della creazione dello stato di diritto, ma non sempre coincide con un adeguato progresso del sistema normativo. Secondo Donato Masciandaro, docente di Economia all’Università Bocconi di Milano, la relazione tra sviluppo economico e certezza del diritto, intesa come capacità di far rispettare le leggi, può generare tre situazioni. «Agli estremi stanno l’assenza di regole contro la certezza del diritto come bene pubblico. In situazione sub-ottimale trovano posto le regole private, che subentrano quando lo stato non può garantirle».

La presenza di due soggetti in un medesimo territorio offre un regime di duopolio in cui si instaurano concorrenza o collusione con la criminalità. Al corretto stato normativo, insomma, si insinua l’evoluzione delle regole mafiose. Comprendere lo sviluppo dalla mafia dei sicari a quella collusa con le istituzioni potrebbe essere la chiave di volta per comprenderne i nuovi meccanismi di ricatto e arrivare a una soluzione per contrastarla. «Bisogna capire che la mafia ha raggiunto un potenziale economico tale da non usare più lo strumento della prevaricazione - spiega Giuliano Pisapia, avvocato penalista del Foro di Milano -: è il lavoro la nuova subdola forma di ricatto». La soluzione sarebbe quindi colpire la mafia sotto il profilo economico (come con la confisca dei beni), più che con la repressione attraverso norme penali come il 416 bis. In particolare si discute sull’attualità delle norme o sulla necessità di un restyling. «Penso sia utile il rinnovamento normativo - ipotizza Gabrio Forti, docente di Diritto penale dell’Università Cattolica di Milano - dato lo spostamento del baricentro dall’intimidazione, carattere atavico del fenomeno mafioso, alla zona grigia in cui entrano in gioco finanzieri e trader».

Dunque, con il subentrare dell’etica degli affari e della responsabilità sociale dell’impresa, sono le aziende a prendere il posto dell’autorità statale. Il giudice Morosini concorda con le riflessioni maturate nel corso del dibattito e ribadisce la necessità di una più adeguata attenzione al problema sicurezza. «Da 15 anni - afferma - opero in un panorama in cui nonostante l’interesse a potenziare la sicurezza fisica, non è ancora garantita la sicurezza esistenziale, ossia il poter lavorare, frequentare scuole funzionanti o accedere a una sanità che renda un servizio dignitoso». In Sicilia c’è invece una fiscalità mafiosa capillare contro gli imprenditori che evolve dalle richieste di racket alle pretese di posti di lavoro per poter rispondere ai nuovi bisogni della gente e continuare il circolo vizioso di anomia e corruzione. «Per accordare i desiderata di Cosa nostra – continua il gup - bisogna avere un legame stretto con le istituzioni. Diffido dai politici che nel contrasto a Cosa nostra parlano di leggi repressive perché negli ultimi 25 anni abbiamo già raggiunto un alto livello legislativo». «Penso piuttosto che una corretta allocazione delle risorse – propone Morosini - sarebbe la soluzione migliore, considerando che ci sono settori pubblici in cui le forze sono sottodimensionate rispetto alle reali richieste. Ciò andrebbe unito a una formazione più specializzata sulle nuove commistioni tra mafia e imprenditoria e a una condotta che agisca ex ante nelle sanzioni penali».

Inoltre, i giudici devono fare i conti con il sistema dell’informazione e con il costante rischio di strumentalizzazione nell’interpretazione delle decisioni rese. Maggiore trasparenza nelle sentenze e un linguaggio normativo più semplice sono gli espedienti suggeriti dal magistrato palermitano per arrivare a una comprensione condivisa di argomenti giuridici spesso ostici. «In fondo - conclude Morosini - la bontà dell’amministrazione dipende dai giudici ma anche dall’opinione pubblica che li sorveglia».