Il sindaco di Roma Gianni Alemanno in visita a una dei feriti nell'attentato alla chiesa di Baghdad lo scorso 31 ottobre. Con lui don Aysar Saaed Don Aysar Saaed è iracheno ma parla un italiano perfetto. È lui che accompagna e traduce le parole dei  feriti dell’attentato alla chiesa cattolica di Baghdad del 31 ottobre: molti di loro, 26, sono stati accolti dal ministero degli Esteri italiano e ricoverati al Policlinico Gemelli di Roma. Ad ospitare i loro accompagnatori, familiari o persone che hanno vissuto l’attentato senza essere feriti, le residenze dell’Università Cattolica.

Durante la preghiera in cui hanno fatto irruzione i terroristi, don Aysar non era in quella chiesa, che guidava fino a cinque anni prima. I suoi successori, don Vasseem e don Thair, 27 e 32 anni, sono stati uccisi insieme ad altre 56 persone. Pur non avendole vissute, Aysar racconta con immagini nitide le cinque ore di occupazione e terrore: ascoltare molte storie, radunare le tessere gli ha permesso di comporre un mosaico completo. E agghiacciante. «Una macelleria. C’era sangue ovunque», dice. Poi racconta un tassello di quel mosaico, la storia di una delle ragazze arrivate a Roma, della quale preferisce omettere il nome e che possiamo vedere nella foto con volto non riconoscibile nel corso della visita del sindaco di Roma Gianni Alemanno.

La ragazza cosa le ha raccontato di quelle ore vissute come ostaggio? Lei fa parte del coro della chiesa: da dietro l’altare vede e sente tutto, come in un film. Prima le urla, poi l’entrata dei terroristi, che sparano all’impazzata al grido «Dio è grande, noi in paradiso, voi all’inferno». Uno dei sacerdoti prova a parlare con gli aggressori, ma viene ucciso a un metro da lei. È il panico. Si rivolgono al coro e sparano anche a loro. Non è un film ma vita vera. Vicino a lei c’è un’amica, incinta da quattro mesi: il marito dell’amica viene colpito. Lei cerca di tranquillizzarla. Entrambe vengono ferite dalle schegge di un lampadario, appena crollato, colpito da una raffica di proiettili. Per scampare alle ire dei terroristi, che stanno aggredendo anche chi si era nascosto in sacrestia, le ragazze si fingono morte sotto i banchi del coro. L’amica è ricoverata a Parigi, e non sa ancora che il marito non ce l’ha fatta.

Storie come questa, lei, ne ha sentite parecchie. Troppe. Sono state uccise famiglie intere. Qui al Gemelli, ad esempio, c’è una bimba di un anno piena di fratture: il fratello, che aveva tre anni, e il padre sono morti. Hanno ucciso anche un bimbo di pochi mesi perché la madre non riusciva a farlo smettere di piangere. Tutte le persone che sono qui, sedici donne, sette uomini e tre bambini, sono sotto shock: è dal punto di vista psicologico che stanno ricevendo i più grandi aiuti.

Crede che ritorneranno in Iraq? Al momento non vogliono tornare, hanno paura. Sono inorriditi e angosciati, tanto i feriti quanto i loro familiari. Io, invece, tra una settimana sarà di nuovo nel mio Paese: sento il bisogno di aiutare chi è rimasto là.

La vostra comunità di che tipo è? La chiesa presa di mira dai terroristi, Nostra Signora della Salvezza, è cattolica, ma in quel momento c’erano anche cristiani caldei e ortodossi. Era una preghiera comune, c’erano più di 200 persone.

L’attentato è stato rivendicato da Al Qaeda che, appellandosi al presunto rapimento di due donne islamiche da parte della chiesa copta egiziana, ha dichiarato i cristiani «bersagli legittimi». La situazione, quindi, è tesa. Negli ultimi giorni sono stati uccisi altri cristiani, addirittura nelle loro case: la situazione è di emergenza, abbiamo paura. Sa qual è il problema? Viviamo in una società violenta, dove non ci sono prospettive di vita serena. È necessario promuovere la tolleranza, la convivenza etnica, religiosa, politica. Manca il rispetto dell’altro. Manca responsabilità non solo della gente, ma anche da chi dovrebbe guidarla: il governo e i capi religiosi, ma anche le forze di polizia, che sono nel caos. Durante l’attentato hanno agito in ritardo e senza efficacia.

Tutto ciò alimenta l’emigrazione dei cristiani dal Medio Oriente: 50 anni fa erano il 20% della popolazione, oggi il 5%. Dati preoccupanti? Certo, ma è un fenomeno che non possiamo fermare. Come facciamo a convincerli a restare se non sono al sicuro né in chiesa né in casa propria? Dal 2003, poi, le percentuali sono degenerate: in 8 anni siamo stati vittime di 900 attacchi, e se prima eravamo 900mila, oggi siamo la metà.

Una situazione che, diceva, è causata dal clima di violenza che vivete. Ma il sinodo che vi ha appena dedicato il Vaticano la attribuisce anche all’«assenza di unità nella chiesa mediorientale». È vero: se siamo deboli è anche per la mancanza di un orizzonte comune. Differenze di tradizione, di rito, etniche e nazionali ci indeboliscono. I patriarchi mancano di un progetto comune, di un atteggiamento unito.