Le nuove tecniche messe a disposizione dalle neuroscienze sono in grado di scandagliare i reali motivi di atroci delitti? I casi più incomprensibili - dall’omicidio di Meredith Kercher al caso di Cogne - hanno avuto una spiegazione attraverso un’indagine “scientifica” sul cervello? Queste le domande al centro del terzo incontro del ciclo "Law and...." organizzato dal dipartimento di Scienze Giuridiche della sede piacentina dell’Università Cattolica.

Su "Psichiatria, neuroscienze e imputabilità" sono intervenuti lo scorso 22 novembre Marta Bertolino, docente di Diritto penale alla sede di Milano dell'Università Cattolica, Isabella Merzagora Betsos, docente di Criminologia all'Università Statale di Milano, Roberto Malano, psichiatra forense, e Francesco Centonze, docente di Diritto penale alla sede di Piacenza delll'Università Cattolica e promotore dell’iniziativa.

La complessità e la pluralità dei paradigmi scientifici sulla psicopatologia, che da sempre mette a dura prova le categorie giuridiche, si è oggi arricchita di una nuova e potenzialmente dirompente novità: le cosiddette neuroscienze, lo studio del sistema nervoso inteso a correlare comportamenti e caratteristiche del cervello. L'ingresso di questo nuovo paradigma nel processo penale al fine di dimostrare la capacità di intendere e di volere del soggetto è ambivalente: da un lato, elemento di prova per corroborare eventuali dubbi sulla infermità, ma, dall'altro, dato apparentemente oggettivo e incontestabile di fronte al quale il giudice rischia di appiattirsi.

Come sottolineato da Marta Bertolino, «è fondamentale che il giudice rimanga il custode del metodo scientifico e del suo utilizzo nel processo penale anche di fronte a nuove frontiere che sembrerebbero proporre certezze sui misteri della mente». «In realtà - ha spiegato Isabella Merzagora Betsos - le neuroscienze sono tutt'altro che certe e incontestabili: la loro scientificità è più descrittiva che esplicativa. Possono dirci come è fatta una certa area del cervello dell'imputato, descriverne le anomalie, ma non sono in grado di spiegare il delitto, correlando la malattia al fatto commesso».

È sempre il giudice a dover motivare sulla responsabilità del soggetto e le neuroscienze possono solo costituire un dato tra gli altri. La ragione è semplice: la fondamentale libertà dell'uomo non può essere ridotta a un’immagine del cervello e nessuno studio elimina il presupposto del libero arbitrio del reo. Del resto, come ha affermato Roberto Malano, la scientificità delle teorie proposte nel processo dipende soprattutto, come sostenuto anche dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, oltre che dalla sua corroborazione, dal fatto che essa dichiari quale è il suo tasso di errore: spesso le teorie neuroscientifiche si presentano come infallibili, sottraendosi in tal modo alla critica e alla discussione.

In definitiva, ha concluso Francesco Centonze, per rispettare il fondamentale principio della presunzione di innocenza, il rapporto tra diritto e scienze deve sempre ispirarsi a «grande cautela in ragione degli scopi e dei valori coinvolti nel processo penale, la cui tutela non può affidarsi a un’immagine, magari sfocata, del cervello».