Dopo la crisi libica, il Mediterraneo è ancora un Mare Nostrum? È la domanda a cui ha cercato di rispondere la tavola rotonda organizzata dal Vittorio Emanuele Parsi, nella sede del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica. Gli interessi economici che gravitano nell’area, il disinteresse dell’Europa del Nord e l’ondata di tumulti nel Mediterraneo sono i punti chiave di un dibattito facile ad aprirsi ma difficile da chiudere.

Il punto di partenza sono le recenti rivolte nei paesi arabi. Per Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica della Cattolica, si tratta di sconvolgimenti derivati da «sistemi di potere fallimentari. Dove la rivolta ha provocato la debacle dei regnanti, le forze di repressione sono state deboli. In Siria e in Yemen, invece, la polizia è stata molto più dura e non si è arrivati al rovesciamento del potere in carica». Inizialmente, i giovani in rivolta chiedevano lavoro, dignità, libertà e rappresentatività. Ma, rivela Redaelli, soprattutto in Egitto «il ruolo chiave è in mano ai Fratelli Musulmani, attestati su posizioni conservatrici. Perché la richiesta fondamentale tra la popolazione è la stabilità».

Serena Giusti, docente di Istituzioni europee dell’ateneo di largo Gemelli, ha contestualizzato le rivoluzioni nel mondo arabo, facendo un salto anche nella storia più recente. Nel 1989 ci fu l’ultima grande spallata verso la democratizzazione dovuta al crollo dell’Unione Sovietica. Tra rivolte e riforme, i Paesi satellite dell’Urss attuarono differenti percorsi verso l’indipendenza, avvertendo Mosca come detentrice di un giogo esterno da cui era difficile liberarsi. «Al contrario, in Nord Africa, siamo in presenza di vere e proprie guerre civili: i contrasti sono all’interno degli stessi Paesi», ha affermato. Un altro elemento che ha caratterizzato queste rivoluzioni è l’importanza dei sindacati: negli Stati Sovietici hanno avuto un ruolo fondamentale. Basti pensare a Solidarnosc in Polonia. In Nord Africa, invece, non esistono. E poi ci sono i giovani. Nel 1989 erano molto attivi, soprattutto in Cecoslovacchia, ma la loro protesta non aveva innescato sconvolgimenti particolari. «Nella politica internazionale - sottolinea Giusti - quando i giovani sono il fulcro dei moti popolari, le probabilità di successo si riducono. Anche i tempi si stanno allungando: nel 1989 il motto era “tutto e subito!”. Nel Nord Africa questa eventualità non sembra possibile, almeno per adesso».

Tutti questi eventi non saranno senza conseguenze, comunque, nell’area mediterranea. Secondo Gianni Bonvicini, direttore dell’Istituto di affari internazionali di Roma, non c’è alcun dubbio: «Il Mediterraneo non è più un affare europeo. Non siamo più soli a coltivare interessi nell’area: nell’Africa mediterranea ci sono attori aggressivi e dinamici, primi fra tutti gli Usa ma anche Brasile e Cina. L’Unione Europea è stata incapace di riconoscere e superare il fallimento delle politiche eurocentriche». Ciò che viene indicato come un ritardo dell’Europa è in gran parte assimilabile alla mancata attuazione della Convenzione di Barcellona che prevedeva uno sviluppo condiviso dell’area. La cooperazione non c’è mai stata e ad oggi gli interessi economici stranieri comprimono quelli europei. L’Unione Europea deve finalmente mettere al centro la questione mediterranea. Secondo Bonvicini per raggiungere l’obiettivo è necessario attuare una politica militare comune a livello europeo, capace di fornire, innanzitutto, aiuti e supporto a breve termine.

La vicinanza temporale con gli eventi del Nord Africa non può in ogni caso farci comprendere a pieno la portata del cambiamento. Lo sostiene Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica, che nelle rivolte vede un possibile spiraglio per l’avvicinamento del mondo arabo all’Occidente. «Negli ultimi anni la contrapposizione tra mondo arabo ed occidentale era forte, e questo è il primo segnale in controtendenza. Potrebbe essere l’inizio di una convergenza. In questo senso il Mediterraneo è diventato uno spazio politico fondamentale». A patto di abbandonare politiche miopi e ombelicali.