Sono soggetti sempre più rilevanti nelle economie occidentali.  E in Italia se ne contano ormai oltre 4.700, di cui 88 di origine bancaria. Le fondazioni negli ultimi anni hanno suscitato un risveglio di interesse, anche per il ruolo che rivestono nella società: da una parte, erogatori di risorse economiche per scopi sociali, dall’altra, soci di controllo di banche e imprese.

Eppure le fondazioni sono ancora un territorio poco battuto sul fronte della ricerca scientifica. Come pure restano ancora molti nodi da sciogliere sul tema, spesso trascurato, delle loro forme di governo. Problematiche di cui si è discusso nel “Quarto workshop sulle fondazioni”, che si è tenuto nelle giornate del 7 e 8 ottobre, rispettivamente nelle città di Milano e Torino. Un appuntamento ormai fisso che il Centro di ricerche sulla Cooperazione e sul nonprofit (Crc) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del dipartimento di Scienze economico-sociali e matematico-statistiche dell’Università degli Studi di Torino promuovono da qualche anno - questa è la quarta edizione - con l’obiettivo di favorire l’analisi scientifica e il dibattito pubblico su questi organismi. 

«Le fondazioni sono enti particolari», spiega Gian Paolo Barbetta, docente di Istituzioni di microeconomia, che di recente a questi soggetti ha dedicato un libro per le edizioni Il Mulino. «Seppur private - aggiunge il professore -, perseguono gli obiettivi di utilità pubblica indicati dai fondatori o dalle comunità d’origine, e approvati dalle istituzioni pubbliche che hanno riconosciuto i loro statuti. Sui modi per raggiungere questi obiettivi hanno ampia autonomia e qui sta la loro funzione sociale: trovare vie nuove per risolvere problemi difficili». In ogni caso, restano ancora molti dubbi sulle forme di governance e sulle strategie da adottare. «Dal momento che dispongono di patrimoni molto consistenti, bisogna capire in che modo distribuiscono i loro finanziamenti, quali modalità operative devono seguire per essere più efficaci e come possono incidere di più anche sui grandi decisori. Da sole non possono certo risolvere tutti i problemi del nostro welfare, ma sono soggetti privati che possono sperimentare. Le risorse non mancano: serve però una strategia».

Per questo motivo Università Cattolica e Università di Torino hanno ideato International Research in Philantropy Awards (Irpas), un progetto che finanzia con borse di studio giovani ricercatori che si occupano di fondazioni. «Abbiamo deciso di premiare le ricerche più interessanti con 4mila euro ciascuno - continua Barbetta -: lo scopo è dare un segnale concreto di attenzione su questi enti, ancora troppo poco studiati». Ma anche un modo per consentire un confronto con quanto succede all’estero. Da dove arrivano indicazioni interessanti. Come emerso dalla relazione del keynote speaker Steen Thomsen, del Center for Corporate Governance Copenhagen Business School. Analizzando il panorama danese, Thomsen ha segnalato che in Danimarca buona parte delle fondazioni controllano imprese importanti del paese (circa 121) e realizzano la metà della capitalizzazione della borsa di Copenhagen. Un fenomeno diffuso in Europa del Nord. Lo confermano Ikea, l’indiana Tata, le tedesche Bertelsmann e Bosch: tutte aziende che realizzano buone performance soprattutto a livello di return on assets. Risultati che, secondo Steen Thomsen, sono raggiunti quando si mantiene la giusta distanza tra proprietà e management. Un segnale evidente, quindi, che è stato trovato un compromesso nella gestione del loro governo. A differenza dell’Italia dove resta una questione aperta. «Non essendo istituzioni pubbliche, i loro organi di governo non sono scelti con il meccanismo del voto - chiarisce Barbetta -. Al contempo, mancando di un proprietario, non sono neppure nominati da un “padrone”, privato o pubblico che sia. I meccanismi di governo delle fondazioni seguono regole più complesse, dettate dalla necessità di perseguire un equilibrio tra le esigenze di efficacia nell’azione e di democraticità nel governo».

Ultima nota. Uno studio condotto in Inghilterra dalla professoressa Siobhan Daly della Northumbria University, presentato nel corso del workshop, pone l’accento sul basso numero di donne in generale nei board delle fondazioni. Una scarsa presenza femminile nei consigli di amministrazione che, indica la ricercatrice, si traduce non solo in una debole propensione delle fondazioni a occuparsi di problemi dell’universo femminile, ma finisce per avere riflessi su tutta la loro attività filantropica.