C’è una vecchia fotografia del 1959 che ritrae il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, mentre accompagna il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, a rendere omaggio alla salma di padre Agostino Gemelli. Era la sera del 15 luglio 1959: il fondatore dell’Università Cattolica si era spento alle 9 e 20 di quella mattina nella casa di cura milanese di San Giuseppe, assistito negli ultimi momenti dallo stesso cardinale, dall’ausiliare mons. Sergio Pignedoli e da altri sacerdoti. La notizia del decesso si era presto diffusa in Italia e nel mondo; anche il papa Giovanni XXIII aveva inviato nella stessa giornata il suo messaggio di cordoglio al presule ambrosiano. Due giorni dopo si tennero nel duomo di Milano i solenni funerali: Montini celebrò la messa pontificale e al termine tenne l’orazione funebre.


La prima parte del ritratto, che di lui Montini fece, era dedicata al ricordo fisico della persona, con quell’aspetto che i primi studenti della Cattolica avevano imparato a conoscere, ad amare e anche a temere, per via della sua notoria severità. L’arcivescovo ne ricordò «la statura tanto alta, e talora potente e prepotente e un po’ terribile», il corpo poderoso e vigoroso nell’umile saio francescano degli anni giovanili, divenuto un fisico forte e maestoso in quelli della maturità, poi curvo e spezzato per via delle infermità che lo avevano colpito. Testimonia i malanni che Gemelli pativa un’altra fotografia famosa dell’epoca, che ritrae padre Agostino il 21 dicembre 1958 insieme al neoeletto cardinale Montini, reduce da Roma, dove aveva ricevuto la porpora cardinalizia. In quest’immagine il frate francescano lo saluta sorridente e sereno, nonostante l’infermità che lo costringe su di una carrozzella. Dal 1940 infatti padre Gemelli aveva riportato una menomazione permanente al femore, a causa di un incidente stradale sulla via Emilia, seguito da un secondo incidente nel 1946 che gli aveva leso la spalla destra.


«Lo abbiamo temuto, sì, ed ammirato, prima di conoscerlo da vicino» ricordò Montini nell’orazione, aggiungendo alle prime notazione di timore quelle caratteristiche di dinamicità, concretezza e operatività che già gli aveva volentieri riconosciuto l’anno prima, celebrandone il cinquantesimo di sacerdozio. In quell’occasione festosa dell’anno precedente la ripetizione dell’aggettivo gagliardo da parte di Montini mirava a esprimere con efficacia anche plastica il dinamismo di padre Gemelli: gagliardo campione, uomo gagliardo e portato a impetuosa vitalità, aveva detto di lui l’arcivescovo.


La celebrazione del 1958 aveva raggiunto il suo momento spiritualmente più elevato nella messa celebrata nella basilica di Sant’Ambrogio con omelia di Montini. Il testo del discorso è riportato per esteso in varie pubblicazioni, tra le quali ricordiamo i Discorsi e scritti milanesi (1964-1963), editi dall’Istituto Paolo VI di Brescia nel 1997. In esso si legge una sorta di sintesi elogiativa delle diverse attività concrete e delle realizzazioni istituzionali volute del francescano. Per esempio, l’Opera delle impiegate, quella della Regalità di Cristo, l’Istituto secolare dei Missionari e delle Missionarie della Regalità di Cristo, cui Montini aveva aggiunto la bontà dell’iniziativa di accendere nella cappella dell’Università l’adorazione dell’Eucaristia.


Invece, nel momento dell’orazione funebre in duomo, la riflessione di Montini si concentrò sulla conversione, avvenuta nel 1903 e sulla creazione dell’Università Cattolica. «Padre Gemelli era un convertito: un convertito non negli anni stanchi della vita consumata e delusa, ma nel fiore rigoglioso di una gioventù ardente e riboccante di energie e promesse» disse, a commento della scelta radicale del giovane Edoardo Gemelli. Questi, abbandonata la formazione positivistica ricevuta in famiglia e negli studi giovanili, dopo essersi laureato in medicina e chirurgia, era entrato nel convento dei frati minori francescani di Rezzato, assumendovi il nome, per molti versi significativo, di Agostino: «come san Paolo folgorato sulla via di Damasco» commentò l’arcivescovo, che definiva la sua conversione come una ribellione e insieme una liberazione, cioè una liberazione del suo pensiero dai ceppi della cultura allora dominante, positivista e laicista. Una scelta drammatica quella di Gemelli, non di chi «si arrende ai sicuri sentieri di un magistero buono e autorevole», ma un dramma vissuto in solitaria ed esemplare grandezza, che ebbe però l’effetto di confortare molti, tra cui si coglie anche il giovanissimo Montini, nella fiducia per lo studio, la ricerca della verità, la gioia della certezza, il dovere della testimonianza.


La fondazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore fu, secondo il cardinale ambrosiano, la verifica vittoriosa della convinzione di Gemelli della possibilità di un’affermazione della scuola cattolica, attraverso le basi teoretiche del movimento filosofico neo-scolastico: «un’opera favolosa e gigantesca», la definì, anzi: «un monumento». Ci vengono in mente a questo proposito le parole del poeta latino Orazio che, al termine della composizione dei primi tre libri di odi, scriveva compiaciuto nel 23 a.C.: Exegi monumentum aere perennius, ho portato a termine un monumento in senso etimologico, cioè un’opera destinata a essere ricordata, persino più duratura del bronzo. Per questa creazione destinata a durare nel tempo, per questo monumento, padre Gemelli meritava per il suo vescovo la definizione di «atleta della cultura», immaginandone e suggerendone ai fedeli la grandezza della prestazione, l’altezza dei traguardi, il valore dei record conseguiti.


Le parole di Montini acquistano ancor oggi un particolare valore e significato, se consideriamo la diversità di temperamento e formazione di chi le pronunciava rispetto al padre francescano, dal quale in più di un’occasione l’aveva separato anche qualche divergenza di ordine pastorale. Esse finivano per accennare a un certo punto a tali momenti dialettici intercorsi, ma naturalmente lo facevano solo in una forma che era lievemente, sottilmente allusiva: «per tanti titoli è da noi distinto» disse di lui Montini, cui però aggiungeva subito «ed a noi superiore». La parte conclusiva dell’orazione del cardinale puntava a mostrare la coincidenza di vedute tra il vescovo e il “gagliardo campione”, tanto da accoglierne solennemente la figura in quella che si potrebbe definire, mutuando il termine da Montini stesso, la schiera dei “nostri”. Perciò lo definì «nostro campione, nostro difensore, nostro capo; come ci sarà caro ripensarlo domani, nostro esempio, nostro padre… Fu nostro infine perché sentì l’amore d’ogni valore del nostro tempo; amò il popolo, la patria, la vita moderna».