È opinione comune che il teatro goldoniano non tramonterà mai perché rappresenta un’istituzione morale che, tra i suoi propositi, vuole portare in scena la vita vera, non più quella di figure stereotipate, bensì la quotidianità di personaggi reali, caratterizzati anche da un preciso profilo psicologico. Frutto della cosiddetta “riforma goldoniana” sono numerosissime commedie in cui il copione si sostituisce al canovaccio, la vicenda segue l’evoluzione di più caratteri e l’arte della parola si raffina in un linguaggio che, nella sua immediatezza non di certo banale, riesce ancora a veicolare messaggi e riflessioni, tutt’oggi fruibili dallo spettatore moderno. Per la terza volta dalla sua nascita, “Letteratura&Letterature” ha dedicato un incontro alle commedie di Carlo Goldoni (1707-1793); giovedì 24 novembre è stata la volta de Il Bugiardo (1750) e de I Rusteghi (1760), presentate da Mariateresa Girardi, docente di Letteratura italiana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, affiancata dall’attore Sergio Mascherpa che ha entusiasmato la platea con brillanti interpretazioni, passando dall’italiano al dialetto veneziano.

Personaggio principale de Il Bugiardo, una delle sedici commedie scritte nel 1750, è il giovane scapestrato Lelio Bisognosi, bugiardo impenitente che fa della facezia il proprio tratto distintivo; il gusto per la battuta arguta viene nobilitato da Goldoni che trasforma il linguaggio faceto in una forma affabile della civile conversazione che risulta essere positiva purché non sfoci nella malevolenza o nell’inganno. Lelio, che può essere considerato come una revisione settecentesca del miles gloriosus plautino, mostra una sorta di vocazione naturale all’inventio, all’arte di sapere trovare nella realtà circostante i soggetti del proprio discorso; alla luce di una prospettiva metaletteraria, egli rappresenta ciò che è il teatro stesso, tessendo vite e storie finte, ma possibili, che di volta in volta vengono portate in scena. La capacità di Lelio nel cogliere le occasioni è, in quest’ottica, paragonabile a quella del poeta nel trarre spunto dalle vicende del mondo per poi “inventarle”.

Tipica delle commedie goldoniane è la caratterizzazione non di un solo personaggio, ma di più personaggi contemporaneamente, soprattutto mediante i dialoghi in cui emergono chiaramente le diverse personalità, affinché ciascuno sia caratterizzato nella sua totalità proprio in virtù dell’interazione con gli altri. A fare da controcanto a Lelio, millantatore vanaglorioso di gesta mai compiute, è Florindo che, negando i fatti in cui è stato realmente coinvolto, si mostra ritroso e pusillanime; in questa relazione si esemplificano i due possibili esiti del “magnanimo dire” che già Aristotele aveva individuato nell’Etica nicomachea: da un lato la superbia, dall’altro la viltà. Non solo Florindo, ma anche Pantalone, il padre del giovane scapestrato, si confronta con il figlio che, come un Don Giovanni un po’ spaccone, narra episodi fantasiosi e rocamboleschi nella cosiddetta “scena del romanzo napoletano” in cui Lelio fa della bugia la base per un nuovo genere epico-cavalleresco sui generis. Quanto più le domande inquisitorie di Pantalone incalzano il figlio, tanto più questi deve appellarsi alla fantasia anche se, a lungo andare, inizia a manifestare la fatica di reggere un simile ruolo; la verità reclama la sua superiorità poiché il limite della verosimiglianza è stato oltrepassato a scapito della credibilità, tema caro a Goldoni – ad esempio, nella commedia La Bottega del Caffè - che la considera uno dei valori fondanti della società umana. Le bugie hanno preso possesso di Lelio che da auctor diventa vittima delle menzogne stesse tanto da dire “Scellerate bugie, vi abomino, vi maledico. Lingua mendace, se più ne dici, ti taglio” per poi ammettere che, nonostante tutto, “l’uso delle bugie mi sarà sempre un gran tentazione”.

Consapevolezza critica e richiamo alla coesione costruttiva del corpo sociale: si possono riassumere in questi termini i principi che legano le commedie di Goldoni, il quale, non da sovversivo moralista, bensì da raffinato conoscitore dei caratteri umani, sa bene che vizi e virtù coesistono nell’uomo e che proprio dalla loro convivenza deve nascere la possibilità di un armonioso vivere civile. Nelle opere della “stagione magica” del teatro goldoniano si accentua la critica sulla società veneziana, in particolare sui mercanti che vengono proposti nei loro risvolti più rigidi e autoritari, come nella commedia I Rusteghi. Lo stesso commediografo li definisce come uomini aspri, zotici, nemici della civiltà e dell’arte del conversare che, alla fine dell’opera, si rivelerà essere il valore risolutivo della vicenda. Pur presentando ciascuno il proprio profilo, i vari rusteghi sono tutti riconducibili alla stessa tipologia umana: vecchi mercanti veneziani, ancorati ai costumi del tempo passato non per conservarne la tradizione, ma per tutelare i propri interessi economici; si considerano depositari del potere esercitato nella propria casa, padroni della moglie e dei figli e appartenenti a una selezionata – presunta - élite di saggi che trovano nei soldi l’unico valore e che sono espressione di un’etica basata sulla negazione di ciò che potrebbe disturbare la loro identità. Anche la lingua adottata è spia di una personalità autoritaria e autoreferenziale: abbondano comandi e divieti, prevale la dominante suasoria, in un linguaggio che esprime il pervicace e accecante attaccamento a sé che impedisce ai rusteghi di vedere il bene comune. La svolta sarà possibile solo con l’intervento delle donne che, facendo un uso eloquente e ponderato della parola, riescono a risolvere i problemi, toccando anche la corda del patetico pur di smuovere i loro mariti. Ne risulta quindi che i valori dei rusteghi vengono avversati aprendo così le porte a un dialogo generazionale in cui vecchi e giovani, tradizioni e novità possono incontrarsi, convivere e sposarsi, promuovendo e salvaguardando così la concordia sociale, ancora prima degli interessi dei rusteghi mercanti di Venezia.