Giovedì 10 novembre, il terzo incontro del ciclo Teatro 2011 ha visto protagonista un ospite d’eccezione che è intervenuto in veste di relatore, attore, regista e consulente artistico del CTB: Franco Branciaroli, attore di grande fama che vanta una brillante carriera teatrale e che, dal 9 novembre, è in scena al Teatro Sociale come interprete e regista dell’opera Servo di scena di Ronald Harwood (1934) nella traduzione di Masolino D’Amico.

La scena è ambientata in una cittadina inglese nel 1942, durante la seconda guerra mondiale. I bombardamenti non arrestano l’attività di una compagnia di capocomici che, come d’abitudine per quel tempo, propone quasi esclusivamente i più famosi capolavori di William Shakespeare. Stasera è la volta del Re Lear, ma il primo attore, Sir Roland, ha avuto un collasso; lo spettacolo rischierebbe di essere annullato se non fosse per le infinite risorse di pazienza e di humour del suo fedele “servo di scena”, Norman, che rincuora il vecchio attore, gli ridà la sicurezza perduta e come sempre lo aiuta a truccarsi e vestirsi. Nel teatro inglese del passato, il dresser – che dà il titolo originale all’opera (The Dresser) e che è stato tradotto con “servo di scena” da D’Amico – è il factotum personale del primo attore: colui che ha l’incarico di stargli sempre accanto, aiutarlo a ripassare la parte, portargli bevande, tenere in ordine il suo guardaroba e naturalmente aiutarlo con il costume. Il servo di scena è molto più di un servo, molto più di un segretario; una figura straordinaria che, spesso, genera legami e conflitti psicologici talvolta fortissimi. Anche nel teatro all’italiana la figura del servo di scena esiste, benché le sue funzioni siano altre; esso funge da attrezzista, tecnico, al servizio dell’intera compagnia teatrale e non di un solo artista. È dunque per merito di Norman che la tragedia può andare in scena e che Sir Roland vi ottiene, recitando in modo più toccante del solito, un particolare successo. Durante l’intervallo, in preda ad oscuri presentimenti causati dall’insistenza dei bombardamenti, Sir Roland, che comincia a comportarsi nella vita reale proprio come il suo personaggio sul palco, dà lettura di una sorta di testamento in cui nomina e ringrazia tutti, dalla direttrice di scena Madge, alla moglie attrice Milady, all’ultimo degli attrezzisti: egli cita tutti tranne Norman. Quando, al termine della rappresentazione, il vecchio muore proprio come il Re Lear, al servo di scena non resta che rifugiarsi in un finto, doloroso cinismo e reclamare a gran voce la sua paga arretrata.

Assistiamo, dunque, a due Re Lear, quello shakespeariano e quello del capocomico che ha perso la testa a causa delle bombe; nella messa in scena di Franco Branciaroli, la dimensione metateatrale – ossia il teatro che rappresenta sé stesso – è resa ancor più esplicita da un’intelligente e funzionale scenografia che, impostata su due livelli, consente allo spettatore di assistere contemporaneamente alla rappresentazione di Re Lear nella parte alta e alla vita da camerino in quella bassa. Sia per il personaggio del dresser che per quello del vecchio grande attore, Ronald Harwood attinse alla propria esperienza dei primissimi anni Cinquanta, quando, appena approdato dal Sudafrica, era entrato come attore generico nella compagnia di Donald Wolfit, di cui divenne presto il dresser, condividendone così splendori e miserie da distanza ravvicinata.

BranciaroliNaturalmente il testo si presta a diverse interpretazioni ed Harwood, con la sua pièce, non solo celebra la fine di questo tipo di teatro e di capocomicato, ma anche quella del grande Impero Inglese. Il quadro rispecchia quello del classico teatro inglese di conversazione che apparentemente è leggero, ma che in realtà tematizza questioni importanti. Nel Servo di scena, primo grande successo del futuro Premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con Il pianista di Roman Polanski nel 2003, si rievoca dunque una gloriosa stagione del teatro inglese che è ormai estinta, quella dei capocomici-mattatori che si consacravano al Bardo e dedicavano la loro vita alla sua diffusione.

Costoro erano custodi della tradizione, fieramente indipendenti, animali da palcoscenico che vivevano solo sulla scena, di cui conoscevano tutte le leggi e tutti i meccanismi così bene da distinguere con difficoltà tra recita e vita quotidiana. Attraverso la dedizione del dresser Norman, Harwood traccia il ritratto di uno di loro, giunto ormai alla fine della sua carriera in una modesta sala di provincia, che si fa chiamare Sir, anche se non lo è affatto e tutti lo sanno; le miserie delle vicende umane dietro le quinte tracciano la parabola discendente della cultura e della fantasia che malgrado tutto lottano con le loro armi pacifiche contro la barbarie e che, in ogni caso, non rimangono sconfitte.

E come il teatro, così crolla l’intera Inghilterra. Ma perché questo accada il teatro deve essere molto importante, deve essere all’altezza del Paese che rappresenta. È questo lo spunto di riflessione che il regista ha suggerito ai presenti, sottolineando come il teatro italiano non abbia mai conosciuto una caduta simile a quello inglese semplicemente perché, a detta sua, non è mai salito così in alto come quello d’oltremanica. Riferendosi a nazioni quali il Regno Unito e la Germania, Branciaroli nota una differenza radicale rispetto alla situazione italiana: in quei Paesi il teatro è considerato un patrimonio nazionale ed è vissuto, tutelato e promosso nella sua vera natura, ossia come forma di conoscenza che, pur non escludendolo, non nasce necessariamente come forma di spettacolo e che consente all’uomo di abbracciare tutto sé stesso per mezzo di un’arte che, sebbene giocata sulla finzione, risulta essere la meno fasulla.