«Obama deve reinventare la ruota e riscoprire il fuoco della politica estera Usa». L’ex ambasciatore John L. Hirsch, nel corso di un seminario che si è tenuto lo scorso 28 novembre all'Alta scuola di economia e relazioni internazionali (Aseri) dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha invitato a non affrettare le conclusioni su quello che è solo il primo atto della nuova presidenza. «L’amministrazione è ancora in fase di apprendimento, sta riannodando i fili di antiche questioni per trovare nuove soluzioni», spiega Hirsch. L’ex-diplomatico statunitense, ora consigliere di International Peace Institute (Ipi), un organismo internazionale indipendente con sede alle Nazioni Unite, è un esperto di zone di conflitto: ha ricoperto incarichi in Somalia, Pakistan, Israele e Sudafrica durante la transizione dall’apartheid. Hirsch esorta a non aspettarsi miracoli dalla politica estera di Obama, perché si rischia di rimanere delusi. Tuttavia traccia un bilancio positivo dei primi nove mesi del presidente, sottolineando la rottura rispetto agli anni di George W. Bush su alcuni punti: l’apertura al dialogo, la volontà  di affrontare subito i problemi cruciali, la costruzione di nuove coalizioni e alleanze.

Hirsch cita quali esempi del nuovo corso l’apertura, per la prima volta dopo trent’anni, di un dialogo con l’Iran e l’attivismo sul fronte mediorientale. «Obama, in continuità con i predecessori, appoggia la soluzione dei due Stati in Medio oriente – spiega l’ambasciatore – ma rispetto al passato sono più chiari il riconoscimento delle aspirazioni palestinesi e l’opposizione all’attività degli insediamenti israeliani ».Anche nei rapporti con Cina e Russia, Hirsch vede netti miglioramenti e loda la linea del pragmatismo verso la potenza asiatica: «ci può essere una convergenza di interessi per neutralizzare le conseguenze della crisi, ridurre le emissioni, riequilibrare il commercio». Infine l’Afghanistan e quella che, dice il diplomatico, è ormai «la guerra di Obama». Hirsch non nega le difficoltà ma spiega: «Ormai non c’è più un netto confine tra pace e conflitto, ma transizioni a lungo termine piene di alti e bassi, impossibili da giudicare giorno per giorno. In Afghanistan - conclude - non ci sarà un giorno della vittoria. Ci saranno, spero, una serie di passaggi che ridurranno le influenze negative».

A margine del seminario abbiamo chiesto a Hirsch un parere sui temi più caldi di questi giorni.
Nelle ultime settimane le vittime di attacchi talebani in Pakistan sono state quasi trecento, più di cento solo ieri a Peshawar. È possibile che l’epicentro della crisi si stia spostando dall’Afghanistan al Pakistan?
La crisi afghana e quelle pakistana sono distinte ma legate tra loro, perché la frontiera tra i due Paesi è aperta e permeabile: il popolo Pashtun è sparso su entrambi i fronti. In Pakistan però esiste un governo democratico e c’è la speranza che l’esercito combatterà con più forza i taliban, come successo di recente nel Wiziristan. L’importante è convincere il popolo pakistano che sconfiggere i talebani è anche nel loro interesse. Il segretario di Stato Hilary Clinton a Islamabad ha detto proprio questo.
L’Iran accetta l’impianto dell’accordo sul nucleare raggiunto dal gruppo 5+1 a Vienna, ma chiede rilevanti modifiche. È un progresso nei negoziati o solo un altro diversivo di Teheran?
Non c’è una risposta certa ma io sono coraggioso, pur senza esagerare. Sono i primi accenni di dialogo dopo molto tempo tra i Paesi del 5+1 e l’Iran, dunque siamo già un passo avanti. Se davvero l’Iran accetterà di arricchire il proprio uranio in Russia, le cose miglioreranno. In caso contrario, gli Usa chiederanno al Consiglio di sicurezza nuove sanzioni. In quest’ipotesi, i migliorati rapporti tra Usa, Russia e Cina potrebbero favorire una convergenza sulla questione.
Il presidente Palestinese Abu Mazen sta pensando di non ricandidarsi alle elezioni del prossimo gennaio perché deluso dagli scarsi sviluppi del processo di pace in Medio oriente. Crede che questa minaccia sia concreta?
Anche se la minaccia fosse seria, Abu Mazen non è l’unico candidato credibile all’interno di Fatah. Se non è lui, ci sarà un altro interlocutore. I palestinesi sono delusi da Hamas perché a Gaza non ha prodotto risultati: i servizi, l’economia, la sicurezza non sono migliorati. L’economia della West Bank controllata dall’Anp, invece, è cresciuta e così la qualità della vita delle persone, anche se non è ancora a un livello accettabile. Un contrasto netto che non credo porterà Hamas alla vittoria.
L’Africa rischia di pagare caro gli effetti della crisi, proprio quando in molti Paesi dell’area c’è stato uno sviluppo del pil, degli investimenti, delle riforme. Ora tutto ripartirà da zero?
La povertà di molti Paesi africani limita il loro coinvolgimento diretto nella crisi finanziaria. Non credo che gli effetti indiretti saranno così drastici. Alcuni Paesi come il Sudafrica, il Botswana, il Ghana, il Senegal possono proseguire il loro sviluppo. I problemi riguardano gli Stati ancora in guerra (Congo, Sudan, Somalia) e poi il cattivo governo, la corruzione, l’estrazione illegale di materie prime. Tutti temi che non c’entrano con la crisi. Certo gli Usa e la Ue dovranno agire per contenere le conseguenze dell’instabilità economica mondiale sull’Africa.