“I miti classici sono contenitori eterni in cui i poeti di ogni epoca riversano un contenuto spirituale e psichico sempre nuovo”. Sono queste le parole con cui Hugo von Hofmannsthal definisce la propria concezione dei miti classici, sottolineandone la versatilità e l’adattabilità, caratteristiche peculiari che hanno consentito a drammaturghi di varie lingue e origini di scriverne riscritture moderne. Noto ai più come poeta, librettista d’opera e autore di drammi lirici, Hugo von Hofmannsthal fu un enfant prodige della modernità letteraria austriaca che qui sa indagare il mondo interiore della psiche attraverso figure classiche, private della loro originaria connotazione mitica e rese funzionali a scandagliare l’inconscio e la vita pulsionale dell’io, anche sulla scorta dell’apporto che Sigmund Freud diede allo sviluppo della psicanalisi. Constatata la ridotta efficacia teatrale dei primi drammi lirici, Hofmannsthal si muove verso una scrittura più drammatica – nel senso etimologico del termine – che si basi principalmente sull’azione; intollerante all’eccesso di contemplazione del bello fine a se stessa, decide di superare l’estetismo fin de siècle in favore di una forma d’arte più profonda che nasca dall’evocazione e dalla suggestione, tratti distintivi di una nuova sensibilità simbolista. A presentare il rapporto tra classicità e modernità nel dramma Elettra di Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) è stata Elena Raponi, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ospite del settimo incontro del ciclo Teatro 2011 che si è svolto mercoledì 7 dicembre; la relatrice è stata affiancata dall’attrice Laura Mantovi che ha offerto un’intensa interpretazione di alcuni passi salienti.

Tratta dall’omonima tragedia di Sofocle e notevolissimo esercizio di stile che racchiude in sé anche citazioni bibliche e riferimenti ad altri capolavori della letteratura mondiale, primo fra tutti l’Amleto di William Shakespeare, l’Elettra (Elektra) di Hofmannsthal fu rappresentata per la prima volta il 30 ottobre 1903 presso il Kleines Theater di Berlino con la regia di Max Reinhardt, con il quale Hofmannsthal collaborò per lunghi anni; un ulteriore sodalizio assai felice fu quello con il compositore tedesco Richard Strauss che musicò diverse opere teatrali dello scrittore, tra le quali la stessa Elektra nel 1909. L'azione è ambientata in un angusto cortile sul retro del palazzo degli Atridi a Micene, in un’atmosfera claustrofobica e asfissiante. Sono passati molti anni da quando Clitennestra, con l'aiuto dell'amante Egisto, ha ucciso a tradimento il marito Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia. La figlia Elettra, costretta a una vita di umiliazioni e percosse nella casa degli assassini, “vive e non vive”, mostrando atteggiamenti animaleschi, portando sul suo corpo i segni del tempo che fugge inesorabile (tema presente anche nel monologo della Marescialla nell’opera Der Rosenkavalier) e apparendo alla madre come un fantasma accusatore che la incolpa in ogni istante dell'assassinio di Agamennone. Attraverso la descrizione della brutale condizione in cui versa la giovane, che si percepisce come il cadavere della Elettra di un tempo che ora non è più, Hofmannsthal offre uno spaccato della devastazione della psiche della protagonista distrutta dall’odio generato in lei dal male subito, un odio che, a sua volta, trasforma la vittima in carnefice, costituendo il vero dramma umano al centro dell’opera. Sensibile alle sollecitazioni del suo tempo, Hofmannsthal riveste questo dramma di suggestive immagini metaforiche - l’odio come sposo inviato a Elettra dal padre – e di una sintomatologia tipica dei disturbi isterici studiati in quegli stessi anni da Freud. La tragedia si apre con alcune ancelle che scherniscono Elettra, per la quale è “meglio essere morti che vivi senza vita”. Sopraggiunge la bella e delicata Crisotemide che vorrebbe soltanto fuggire da lì ed essere felice, avere dei figli: desiderio che esprime affermando “io sono una donna e voglio un destino da donna”; ma agli occhi di Elettra, l’immagine di maternità e di femminilità che Crisotemide rivendica è stata per sempre corrotta dall’atrocità della madre Clitennestra. Entra ora in scena proprio Clitennestra.

L’assassina di Agamennone prega gli dei perché allontanino i fantasmi che popolano i suoi sogni e che la tormentano senza tregua; la notte precedente ha sognato il figlio Oreste che aveva allontanato dal palazzo quando ancora era in giovanissima età e di cui teme il ritorno. Avvicinatasi a Elettra, chiede alla figlia cosa fare perché i suoi incubi la abbandonino definitivamente. In una sorta di seduta terapeutica in cui lo stile avvocatorio tipico delle tragedie sofoclee lascia spazio ad un confronto più psicologico e introspettivo, Elettra funge da medico che aiuta la paziente a far riaffiorare alla memoria l’evento drammatico rimosso. Per Clitennestra, infatti, nulla è irrevocabile, tutto può essere ritrattato: rifiutandosi di assumere la responsabilità dell’accaduto che sola potrebbe liberarla dai fantasmi e restituirle l’integrità dell’io, ella afferma che “prima ci fu un prima, dopo ci fu un dopo, ciò che è successo nel mezzo l’ha fatto la scure”. Emerge in questo dialogo animato la scottante domanda se sia meglio dimenticare o ricordare un avvenimento tragico: la figlia è distrutta dalla presenza martellante del ricordo, mentre la madre soffre gli effetti psico-fisici della rimozione del misfatto. Mentre il confronto serrato con la madre sta per trasformarsi per Elettra in un nuovo delirante sogno di sangue, ecco giungere la falsa notizia della morte di Oreste. Clitennestra trionfa, Elettra è schiantata dal dolore. Dopo aver cercato invano di convincere Crisotemide ad aiutarla, Elettra decide di compiere la sua opera di morte da sola e, come in preda ad un raptus isterico, scava per terra alla ricerca della scure, l’arma con la quale era stato ucciso il padre Agamennone e che la giovane ha sotterrato e custodito per tutti questi anni. Ma ecco che entra in scena Oreste. Al termine di un dialogo ricco di toni drammatici, ma affettuosi, fratello e sorella si riconoscono. La tragedia si avvia ora rapidamente verso la catastrofe. Oreste entra nel palazzo e uccide prima Clitennestra e poi Egisto, mentre Elettra, che ha dimenticato di consegnare al fratello la scure, sprofonda nel cortile in uno stato di trance: l'unico sogno che la manteneva in vita ora si è realizzato. Ella si alza in piedi e, dopo aver fatto alcuni passi, inizia una danza delirante con la quale celebra il suo trionfo fino a cadere a terra esanime. La morte della protagonista in una danza dionisiaca di vittoria lascia comunque aperto l’interrogativo se l’uccisione di Clitennestra ed Egisto da parte di Oreste abbia realmente placato le sofferenze di Elettra, che in quest’opera assurge a maschera tragica di Dioniso Zagreo, figura mitologica studiata da Friedrich Nietzsche; proprio la concezione nietzschiana della tragicità esposta nel famoso trattato La nascita della tragedia influenzò l’Elettra. Ma nella produzione letteraria della maturità, Hofmannsthal abbandonerà la forma drammatica della tragedia e il mito classico in favore delle commedie e del mito barocco del theatrum mundi. Ed è così che l’azione mortale della scure si trasforma nel gesto del mendicante protagonista del Gran teatro del mondo di Salisburgo (Das Salzburger Große Welttheater, 1922), il quale abbassa la scure già alzata, per aprirsi al perdono, ribaltando il principio di vita dei personaggi dell’Elettra, secondo i quali “ogni demone lascia la preda non appena sia versato il sangue giusto”.