di Marco Lombardi *
Intorno alle vicende iraqene, meglio quelle dello Stato Islamico (Is) – erede di Isi, Isis e Isil, quello che più stupisce è lo stupore. Tutto quello tutto quello che accade era già scritto e atteso, e si svolge secondo un copione comprensibile.
Che cosa stupisce? La decapitazione?
Foley non è il primo reporter ammazzato dal jihad. Daniel Pearl, corrispondente di The Wall Street Journal, è stato decapitato il 1° febbraio 2002. Altri hanno seguito la stessa morte comminata dal gruppo di Al-Zarkawi: Nicholas Berg decapitato il 7 maggio 2004, lavorava nelle telecomunicazioni; "Jack" Armstrong e Jack Hensley, che lavoravano per la Gulf Supplies Commercial Services, sono stati decapitati nel settembre del medesimo anno. Il 19 agosto 2014, un video di Is mostra l’eguale sorte di un altro reporter, James Foley, proprio per mano del Califfato di Al-Baghdadi, l’erede dichiarato di quell’Al-Zarkawi che aveva avviato la stagione. Ma non si dimentichino i nostri reporter Enzo Baldoni ammazzato ad agosto e Salvatore Santoro ammazzato a dicembre, sempre nel 2004. Perché meravigliarsi che chi si dichiara il successore di Al-Zarkawi non ne segua i modelli ideologici e assassini?
Che cosa stupisce? L’arruolamento dei bambini di dieci anni?
Is segue un’abitudine vecchia e la adegua alla comunicazione dei social “immolando mediaticamente” bambini che decapitano bambole. Ma già Hamas ha da sempre socializzato i più piccoli alla scuola del terrore, distribuendo cartoni animati che spingessero a emulare i suicide bomber. Oggi alleato, o quasi, contro Is, il Pkk è accusato da anni di avere sistematicamente prelevato con forza i bambini per indottrinarli al combattimento più duro. L’Africa sui bambini-soldato ha costruito massacri. Perché meravigliarsi che chi reclama l’infibulazione delle donne non faccia eguale impiego dei bambini come carne da macello?
Che cosa stupisce? Che i jihadisti sappiano usare Premiere o Final Cut?
Il terrorismo è per sua costituzione legato ai processi comunicativi: il premio del terrorista sta nel promuovere il terrore, ovviamente, e dunque il canale mediatico è il più adatto a diffondere la minaccia che di quello è alla base. Le strategie della comunicazione hanno da sempre affiancato le strategie del kalashnikov: si è solo passati dal ciclostile Br al social di Is. Perché meravigliarsi che chi imbraccia un kalashnikov sulle montagne Iraqene “non stia connesso”?
Che cosa stupisce? Che si utilizzino i barconi dei disperati per importare potenziali minacce jihadiste in Europa?
L’intelligence algerina ha confermato, l’altro giorno, il giro di “manovalanza a rischio”, intercettando un centinaio di persone probabilmente formate al combattimento nei teatri siriani e iraqeni. D’altra parte sappiamo anche che alcuni predicatori raccomandano di andare in Siria, a imparare, ma di tornare, per combattere qui. E poi oggi si riscoprono i canali di approvvigionamento dei trafficanti via Agadez, Sebha e Kufra: come è da 15 anni almeno. Perché meravigliarsi che chi da anni, come Aqim, offre i servizi di sicurezza ai trafficanti nell’attraversamento dei deserti non utilizzi quegli stessi veicoli per esportare i propri uomini?
Per chi, dunque, da anni studia il fenomeno terrorismo – come in Università Cattolica il centro di ricerca del dipartimento di Sociologia, Itstime – il flusso di avvenimenti accaduto in questi ultimi tempi è scritto all’interno di un copione comprensibile. Diventa interessante, e forse parte dello studio pertanto, lo stupore che fa da sfondo alle vicende più crude di questi giorni di agosto.
Perché stupirsi? Argomento tre possibili linee di risposta.
La prima è quella dello stupore genuino: si scopre, solo ora e sul serio, che il terrorista jihadista non corrisponde all’icona sedimentata nella nostra conoscenza, veicolata dalla descrizione mediatica, elaborata nelle analisi rese pubbliche. È uno stupore che si fonda su una forma pericolosa di “etnocentrismo cognitivo”, in cui l’unica forma interpretativa legittima è quella per prossimità e similitudine, la forma più comoda e meno disturbante che contempla l’alterità come possibilità residuale, dunque dai più accantonata. Si tratta di una risposta ad altissimo rischio, tanto più a rischio quanto più condivisa anche da parte di quelle istituzioni che si devono preoccupare di contenere le minacce e garantire la sicurezza.
La seconda risposta si può ritrovare in una strategia mediatica che sottolinea episodicità, eccezionalità e singolarità dei barbari accadimenti come è proprio della strategia abituale funzionale a massimizzare la “notiziabilità” degli eventi. Insomma: una conferma del business mediatico che da sempre il terrorismo rappresenta, tanto da avere sancito, già dieci anni fa, una alleanza “irresponsabile” tra media occidentali e propaganda jihadista, allora sigillata nella diffusione, per ragioni di cassetta, di insulsi trailer annuncianti il prossimo sermone del fu Osama Bin Laden. Sermone mai poi rilasciato, ma efficace come se lo fosse stato, grazie al trailer.
La terza è una risposta giustificata da una necessità di mobilitazione dell’opinione pubblica, affinché la politica possa intraprendere delle azioni che altrimenti troverebbero scarso o punto consenso. D’altra parte è inverosimile la calma con cui si argomenta sulla distribuzione di armi per armare combattenti (Curdi); non si discute l’alleanza con l’America che, seppure dal cielo per ora solamente, torna a colpire in Iraq né tantomeno i “boots on the field” delle Sas per trovare un rapper assassino. Per molto meno, nel passato recente, il nostro paese fu percorso dalle manifestazioni di piazza multicolori.
Non credo che le tre risposte qui articolate per cercare di capire “lo stupore” siano le uniche possibili. Non credo neppure che siano mutuamente esclusive. Anzi, un buon mix delle tre potrebbe starci a pennello se il risultato è quello di consolidare i plus contenuti in ciascuna risposta.
Dalla prima: abbandoniamo ogni etnocentrismo in favore di un approccio comprensivo (alla Weber) della realtà. Dalla seconda: assumiamo le nostre responsabilità di comunicatori, perché ogni comunicazione veicola valore e produce un effetto, che ha “un padre”. Dalla terza: siamo popolo, che condivide radici, cultura e identità, e si esprime in un’azione politica coesa.
Soprattutto, una tale spiegazione dello stupore suscitato dalle azioni dello Stato Islamico mi fa credere che sia ancora possibile elaborare una risposta efficace alla minaccia più seria - per intensità e perdurabilità - che mai si sia presentata sullo scacchiere globale.
* professore di Sociologia alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore del centro di ricerca Itstime