Si può diventare il 44esimo presidente degli Stati Uniti anche con la pelle nera, un padre nato in Kenya e Hussein come secondo nome. Il mondo cambia, almeno a Washington, sotto la guida di Barack Obama. Cambia tanto da rendere possibile la nomina di una donna nata a Srinagar, in India, a capo di un settore del Dipartimento di Stato americano. Si chiama Farah Pandith e dal 26 giugno 2009 è la Rappresentante speciale delle comunità islamiche alla Casa Bianca. Prima dell’attuale incarico, la Pandith ha lavorato come consigliere anziano alla segreteria di Stato americana, con l’incarico di coinvolgere le comunità musulmane nell’area euroasiatica in una politica d’integrazione. Oggi gira per il mondo per scoprire come l’Occidente si rapporta con l’Islam.

L’esempio di Farah Pandith segna un discrimine rispetto tra i modi usati dalle grandi potenze mondiali per conoscere l’Islam. La sua storia personale incarna di per sé una possibilità di realizzazione delle aspirazioni alla convivenza e all’integrazione nel senso più completo del termine. L’Università Cattolica, per onorare la sua visita in Italia organizzata dal Consolato degli Stati Uniti, ha affrontato il tema dell’interrelazione culturale con l’incontro “Musulmani in occidente”, promosso lo scorso 15 marzo in largo Gemelli a Milano dal centro di ricerca sulle Relazioni interculturali. In particolare, i riflettori si accendono sulle donne e sulle seconde generazioni.

«Ciò che caratterizza le donne sedute a questo tavolo non è la loro sessualità o la loro fede religiosa, ma l’essere donne di successo». Così Yahya Pallavicini, unico uomo ospite della conferenza, omaggia le relatrici Farah Pandith, Dounia Ettaib e Farian Sabahi. Il vicepresidente della Comunità religiosa islamica (Co.re.is) ricorda come in Italia il ruolo della donna nell’Islam sia visto con occhi offuscati dal pregiudizio. «La sottomissione della donna – dice Pallavicini – non ha nulla a che fare con la religione. È una costruzione artificiale quella che ritiene l’Islam un credo basato su un senso retrogrado che nega alle donne il diritto alla realizzazione personale». «Il problema – conclude – è che ci si preoccupa dei simboli, come per esempio il velo, e non della dignità della donna». Dounia Ettaib, presidente dell’associazione Donne arabe d’Italia (Dari), sottolinea, però, come resista il maschilismo in certe pratiche che alcuni, in modo falso, vogliono far discendere dai dettami di Maometto. «Uomini e donne sono creati uguali gli uni agli altri e questo è sottolineato nel Corano – spiega la Ettaib -. Ma le donne musulmane non possono perseguire la felicità sotto il burqua e le costrizioni. Lavoriamo insieme per garantire alle donne musulmane la libertà di scelta».

L’integrazione, però, non è affare che riguarda solo chi emigra nel nostro Paese. Per esempio, può riguardare persone nate in Italia da padre straniero e madre italiana, che fino al 1983 non hanno avuto la cittadinanza per un ritardo giuridico. Stranieri nel Paese di provenienza paterna, stranieri in Italia, luogo dell’accoglienza a metà. È il caso della professoressa Farian Sabahi, nata a Torino da padre iraniano e madre piemontese. Oggi vive tra l’Italia e la Svizzera. «Mi chiedo – dice la Sabahi - se l’Italia sia un Paese avanti o indietro. A Torino, nel quartiere di San Salvario, dove vivo, sento ancora forte l’islamofobia. E prima degli immigrati stranieri, negli anni ’70, ad essere discriminati erano i meridionali. Nella mia famiglia l’ala più “femminista” è sempre stata quella paterna. Mio padre mi diceva di studiare, perché altrimenti nella vita non avrei avuto spazio, mentre per mio fratello un lavoretto fisico era sempre facile da trovare». Sono le «narrative dominanti», come le ha chiamate Farah Pandith, a inquinare l’immaginario collettivo e a far passare messaggi distorti.

La seconda parte del convegno, coordinato dall’islamista Paolo Branca, ha avuto per protagonisti i giovani delle seconde generazioni. Maroune Bel Badria, studente al secondo anno di specialistica in Relazioni Internazionali in Cattolica, è stato il primo a prendere la parola. Fa parte dell’associazione “Gente di pace junior”. «Farah Pandith – ha detto Marouane – incarna un messaggio di pace e di inclusione. Non possiamo lasciare che siano i terroristi a rappresentare l’Islam nel mondo. Noi seconde generazioni possiamo riavvicinare mondi diversi tra loro. Per farlo, però, abbiamo bisogno di un riconoscimento giuridico e istituzionale: la cittadinanza.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche gli interventi di Leyla Joundè e Akram Idries, due giovani redattori di Jalla Italia, un inserto del periodico Vita dedicato proprio ai nuovi italiani. «Essere donna musulmana – dice Leyla – è una scelta identitaria. Ho deciso di essere armoniosamente siriana e italiana, per essere il punto di contatto tra due culture diverse». Akram si definisce «un ponte, preposto a colmare quel gap che esiste tra culture diverse». È questo, dice, il ruolo dei mediatori sociali. Il problema però è da dove iniziare a ricucire i fili tra questi mondi staccati. La risposta al quesito è affidata Farah Pandith. «Non possiamo – dice – continuare a porci il problema del passato. Dobbiamo, e dovete, rivolgere lo sguardo al futuro, perché le vostre azioni hanno il potere di cambiare il futuro. Il ritmo del cambiamento, si sa, non è mai abbastanza veloce. Ma il futuro ci riserverà sorprese grandiose».