«Non tentare di entrare senza il mio permesso. Io sono molto potente eppure non sono che l'ultimo dei guardiani; di sala in sala, di porta in porta ogni guardiano è più potente del precedente. [...] - Ogni uomo aspira a conoscere la legge. Come mai allora in tutti questi anni nessuno all'infuori di me ha mai chiesto di entrare? - Tu solo avresti potuto essere ammesso. A nessun altro è consentito varcare questa porta. Questa porta era destinata solo a te... e adesso te la chiuderò».

Le prime battute del film di Orson Welles del 1962 - tratto dal più celebre romanzo di Franz Kafka, Il processo - hanno significativamente aperto l'11 aprile l'incontro del ciclo seminariale "Giustizia e Letteratura" dal titolo «Davanti alla legge». La giustizia di Franz Kafka, organizzato dal Centro Studi "Federico Stella" per la Giustizia penale e la politica criminale (Csgp) diretto da Gabrio Forti, preside della facoltà di Giurisprudenza  e docente di Diritto penale e Criminologia dell'ateneo.

«Paradigma sommo di scrittore mitteleuropeo a cavallo tra Ottocento e Novecento», come lo ha definito Luigi Forte, relatore dell'incontro e ordinario di Lingua e Letteratura tedesca nella facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'Università degli Studi di Torino, Kafka racconta nei suoi romanzi una realtà che si presenta inconoscibile all'autore così come ai suoi personaggi, tra i quali appunto l'agrimensore che dialoga con il guardiano in apertura del Processo. «"Giustizia" e "Letteratura" - ha osservato Forte - sono due termini fondamentali nell'opera di Kafka, fondata proprio sull'idea di tribunale». Questa, come ha spiegato il professore torinese, si concretizza in tre diverse istanze, prima delle quali la figura del padre, protagonista di molti racconti che racchiudono importanti riferimenti autobiografici: si pensi a La condanna o al più celebre La metamorfosi, in cui è proprio il rapporto con l'autorità paterna, in una dimensione familiare, a determinare l'autoumiliazione e il degrado del corpo umano. «Ne emerge un ritratto disastroso della famiglia, in cui l'individuo si sente straniero nella sua stessa stanza, tanto da arrivare a una dissoluzione del corpo e alla scomparsa del confine tra uomini e cose».

Il tribunale vero e proprio, poi, è il centro del Processo ed è rappresentato come «una giustizia che non dà risposte e che giudica chi non è colpevole». Proprio questa assenza di correlazione tra colpa e punizione, come ha notato Gabrio Forti nel ruolo di discussant, è alla base dell'universo letterario kafkiano, nel quale «non esiste presunzione di innocenza». È il senso di estraneità e di alienazione l'elemento che permea tutta l'opera dell'autore boemo, riflesso della sua tormentata vicenda biografica, che trova la massima espressione nella Lettera al padre del 1919, «costruita - come ha notato ancora il direttore del Csgp - come una requisitoria con la quale, tentando di riconquistare la fiducia in se stesso e di rivendicare i propri diritti rispetto all'autorità paterna, Kafka finisce per sancire la sua condanna».

In questa prospettiva, la letteratura diventa per Kafka una via per riscattarsi e cercare il contatto con la realtà, ma è un'illusione fugace: la letteratura, in realtà, diventa sinonimo di isolamento e distacco dalla società e dal reale e si trasforma, secondo la definizione di Forte, nel suo «terzo tribunale». È emerso così l'inedito ritratto di un autore tra i più celebri della letteratura mondiale, che, come ha ricordato ancora il preside di Giurisprudenza sulla scorta di Ladislao Mittner, «ha fatto dell'aldiqua, in quanto non raggiungibile, un aldilà» e, da uomo "senza casa", ha trovato nella scrittura il suo rifugio e insieme la sua condanna.