Masaccio, Beato Angelico e Piero della Francesca. Tre maestri del Quattrocento che hanno segnato in modo indelebile il difficile passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Quale esperienza faceva un fiorentino che passava dal Carmine e osservava lo sguardo teso e obbediente del “San Pietro al seguito di Cristo” di Masaccio? O un novizio domenicano che entrava nel convento di San Marco pronto a spenderci la vita e si trovava nella cella l’immagine di un suo confratello abbracciato al Crocefisso del Beato Angelico? E un aretino, entrando in San Francesco, veniva subito attratto dal dispiegamento cromatico del “Ciclo della vera storia della croce” di Piero della Francesca?
Sono queste le domande poste da alcuni studenti dell’Università Cattolica di Milano che hanno concretizzato i loro studi e le loro ricerche realizzando una mostra in occasione della 30esima edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini. Il tema, infatti, si collega allo spirito del meeting che da sempre ha, tra i suoi baluardi, la conoscenza e la rivitalizzazione delle dinamiche tradizionali della società e della religione. Da da lunedì 22 novembre a sabato 27 novembre,  lungo lo scalone d’onore, sarà possibile visitare la mostra anche all’interno dell’ateneo di largo Gemelli.

«Masaccio, Beato Angelico e Piero della Francesca – spiega Vera Goggi, una delle curatrici della mostra e studentessa del corso di laurea magistrale in Storia dell'arte – hanno interpretato aspettative e criticità di quel delicato momento storico che è stato il Quattrocento, per questo ci interessava considerare tutti e tre gli autori nel loro rapporto reciproco e con il contesto in cui si trovavano ad essere, invece che soffermarci sulla produzione di uno solo di essi».

Una mostra che però non sarebbe stata possibile senza l’ausilio di due professori esperti come Marco Rossi, docente di Storia medievale e Alessandro Rovetta, docente di Storia della critica d'arte, che hanno raccolto la proposta degli studenti e offrendo loro spunti di riflessione e consigli. «Ma non hanno mai voluto sostituirsi a noi in questo lavoro – spiega Vera Goggi – al contrario hanno sollecitato la nostra ricerca a non soffermarsi mai su risposte semplici e apparentemente esaustive».

«All'inizio noi studenti tendevamo a rapportarci con le opere tentando di fare un ordinato e preciso collage di quanto la critica aveva detto su di esse. Questo lavoro, se pur necessario, era incompleto, in quanto mancava un paragone, un rapporto personale tra noi e l'opera che avevamo davanti: dovevamo imparare a guardarle come avevano fatto i grandi critici, e non imitare le loro parole senza capirle. Per farci comprendere questa differenza di approccio all'oggetto di studio i professori – racconta - ci hanno portato a Firenze e ad Arezzo a vedere dal vero le opere. Così, esse hanno iniziato a svelarsi davanti a noi non più come oggetti inerti, ma come il prodotto di uomini vivi impegnati nel tentativo di trovare una strada praticabile per conoscere la realtà, il che ha reso il nostro studio decisamente più interessante. Uno studio di questo tipo ha costretto ciascuno di noi ad un paragone personale e serrato con la materia e ha reso evidente il metodo con il quale intendiamo affrontare il nostro studio universitario. Non vedevamo dunque luogo più idoneo all’allestimento di tale mostra che la nostra università, che - come dimostra un lavoro di questo genere - può ancora essere universitas nel senso originario del termine».

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