One day after peace è il titolo del documentario che ripercorre un viaggio tra Israele, Territori Palestinesi e Sudafrica. Un percorso in cerca di una risposta alla domanda di giustizia che tutti i conflitti, specie quelli che creano ferite così profonde, generano nelle vittime e nella collettività. Il film, proiettato nell'Aula Magna dell'Università Cattolica nel corso del seminario organizzato dal Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la politica criminale (Csgp) il 2 luglio, racconta la storia di perdono di Robi Damelin, presente in sala.

Lo spettatore "accompagna" il ritorno di questa donna israeliana nella sua terra natia e, attraverso i suoi incontri con alcune vittime e autori di azioni violente, siano essi esponenti del regime dell'apartheid o combattenti dell'African National Congress, può osservare da vicino tutta la complessità e tortuosità dei percorsi del dialogo (o del mancato dialogo) e del perdono (o del mancato perdono). Fino a interrogarsi sul modo in cui l'esperienza della Truth & Reconciliation Commission sudafricana di Nelson Mandela e Desmond Tutu può ispirare la riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

È un viaggio non facile per Damelin, che vede il suo dolore rispecchiato in quello delle madri sudafricane, che misura la sincerità del suo desiderio di dialogo attraverso il confronto con Adrian Vlok, ministro dell'interno al tempo dell'Apartheid che ammette di aver chiesto l'amnistia, almeno inizialmente, per pura convenienza, che ascolta i giovani autori materiali di un attentato dell'African National Congress desiderando, ma nello stesso tempo temendo, l'incontro con il responsabile della morte di suo figlio. Robi Damelin non sa se incontrerà Thaer Hamad, l'assassino di suo figlio, non sa se lui accetterà di dialogare con lei né se lei stessa, qualora questa possibilità divenisse concreta, avrà il coraggio di farlo.

La trasformazione della "forma geometrica" della vendetta - una spirale che ripiega all'infinito su se stessa - verso la forma del cambiamento che permette l'incontro - una linea la cui estremità è aperta - è l'immagine proposta dal professor Gabrio Forti, preside della facoltà di Giurisprudenza e direttore del Csgp, che ben illustra molti dei contenuti del film e del dialogo che ne è seguito. Il professor Forti, sensibile all'apporto della letteratura nella riflessione sulla giustizia, e viceversa, ha proposto una lettura della storia di Robi Damelin secondo il tema letterario della "quest". Ma la ricerca di Damelin non è un'impresa epica, eroica, almeno non nel senso tradizionale. Siamo davanti a un nuovo concetto di eroe, più ordinario ma non meno valoroso, che non ambisce a conquistare il sacro Graal ma a incontrare il nemico, a ascoltare le sue ragioni. Non importa quali saranno gli argomenti di Thaer, quello che Damelin cerca è l'incontro, l'inizio della relazione che permetterebbe alla "linea" di aprirsi ancora di più.

 

 

Il tema dell'apertura all'altro è stato ripreso da Claudia Mazzucato, docente di diritto penale e componente del Csgp: «Persone come Robi Damelin ci dicono che la giustizia ha a che vedere con l'apertura, il movimento e l'incertezza. Con la sua domanda di giustizia sta chiedendo a qualcuno di andarle incontro e al contempo lei stessa si muove "verso". L'unica cosa certa di questo viaggio incerto è che le persone sono alla ricerca della prova che l'esperienza del male provocato e subìto non esaurisce l'esperienza del mondo, che c'è qualcosa di altro e di oltre. E la cosa terribile, scandalosa - ma è qui la scommessa - è che i codici di accesso a questa prova sono nelle mani del nemico, dell'altro non voluto: è lui che ha il balsamo di quelle cicatrici e ciò lo rende un altro prezioso e significativo».

Sulla stessa lunghezza d'onda Adolfo Ceretti, docente di criminologia all'Università di Milano Bicocca, secondo cui quel "balsamo" è la "cura" reciproca di reo e vittima: «L'unica persona che può sciogliere alcuni nodi, liberando la vittima dalle ossessioni che la scomunicano dal mondo, è proprio il "suo" perpetrator». E questo è il paradosso della Restorative Justice.

Gherardo Colombo, ex magistrato, coglie il valore esemplare del percorso di Damelin: «Qui abbiamo tutto quello che ci serve per porci la domanda vera: qual è la strada per uscire da situazioni così drammatiche? Nel corso della storia abbiamo quasi sempre sperimentato una strada diversa da quella che qui è proposta e che non ha fatto altro che perpetuare i conflitti. Qui viene presentata un'altra via».

Sia Forti che Colombo hanno sottolineato l'importanza, anche per il nostro Paese, di fare i conti con un «passato complesso» - basti pensare agli anni del terrorismo e dello stragismo - che è ancora «coperto da una coltre impenetrabile». Fabrizio Caprara, presidente di Saatchi & Saatchi, ha posto l'accento sulla creatività e sulla forza comunicativa di alcuni gesti simbolici compiuti dai familiari delle vittime del conflitto israelo-palestinese, quali, ad esempio, la donazione di sangue reciproca. L'occasione di mettere subito alla prova i temi dell'incontro e i principi che ispirano la giustizia riparativa è stata offerta da alcuni attivisti filo-palestinesi presenti in sala, i quali hanno contestato Robi Damelin e che la stessa ha però invitato a un immediato dialogo e a non cedere alla tentazione di schierarsi subito per una parte o per l'altra, estendendo il conflitto al di fuori di Israele e della Palestina, ma a sostenere quanti si adoperano attivamente e con fatica per la pace.