Il cammino di Dante nei tre regni oltremondani è un itinerario che stimola la riflessione sia sulla giustizia retributiva, sia su quella riparativa, per giungere in ultimo a interrogarsi sulla giustizia divina. Dopo il primo incontro introduttivo, L’esperienza letteraria nella formazione giuridica del 7 novembre 2013, che è stato occasione per una riflessione sui molteplici significati e sulle notevoli potenzialità racchiuse nella relazione tra l’universo letterario e l’universo giuridico, a cui hanno partecipato, insieme a Gabrio Forti, direttore del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Csgp), le ricercatrici Claudia Mazzucato e Arianna Visconti, il 14 novembre 2013, si è tenuto il secondo seminario del Ciclo seminarialeGiustizia e Letteratura”, organizzato dal Csgp, dal titolo La giustizia della Divina Commedia: colpa, pena e beatitudine.

Al seminario, introdotto dal professor Forti, hanno preso parte Pierantonio Frare, docente di Letteratura italiana nella facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Francesco D’Alessandro, docente di Diritto penale commerciale nella facoltà di Economia. I due relatori hanno sottolineato che la Commedia presenta numerosi profili di interesse per il giurista, soprattutto penale. Tra questi assumono particolare rilevanza i significati di pena e di giustizia emergenti dalla Commedia, che permettono una lettura dell’opera rivolta al presente.

Gabrio FortiA una prima analisi, concentrata specialmente sull’Inferno, facendo prevalentemente riferimento alla poena sensus, ossia alla sofferenza corporale inflitta al dannato, si potrebbe ritenere che la pena nell’intera opera dantesca abbia un significato retributivo. Ciò rischia, tuttavia, di attribuire scarsa rilevanza alla pena principale, ossia la lontananza da Dio, la cosiddetta poena damni: più grave è stata la colpa durante la vita, più il dannato è lontano da Dio e vicino a Lucifero.

Anche la generale considerazione del contrappasso quale espressione della pena retributiva e dell’inflizione di un male per il peccato commesso in vita deve essere precisata. Infatti, si può parlare di contrappasso nell’Inferno e nel Purgatorio solo in rari casi. Grazie anche a tali specificazioni, si può ritenere che la giustizia intesa come mera retribuzione si manifesti solo nell’Inferno e si riduca peraltro a essere il criterio regolativo delle sole pene fisiche alle quali si aggiunge sempre una pena ulteriore, siccome ciascun dannato concorre ad aggravare la sofferenza degli altri. Quest’ultimo aspetto anticipa, per certi versi, quanto affermerà Sartre, sostenendo che «l’enfer, c’est les autres». La retribuzione e la pena perpetua rappresentano dunque, nell’Inferno dantesco, la giustizia di Lucifero.

Anche il Dante personaggio sembra nella parte finale della prima Cantica essere influenzato da tale concezione di giustizia, ma il cammino successivo negli altri due regni oltremondani mette il poeta a contatto con altre sfere di giustizia. La pena nel Purgatorio non è perpetua e il penitente intraprende un percorso volto al superamento della colpa commessa in vita. Le anime che vengono incontrate da Dante accettano la pena, sono aperte al perdono: sia a donarlo, sia a riceverlo. La pena quindi ha la funzione di «rimendare» (Pg. XIII v. 106), ossia di ricucire la ferita cagionata dal peccato sia nell’animo del peccatore, sia nella società.

Il Purgatorio si ispira, pertanto, a un tipo di giustizia riparativa e relazionale che supera e si sostituisce a quella retributiva propria dell’Inferno. D’altronde il Purgatorio è regno speculare e opposto rispetto all’Inferno, che svela l’inumanità delle regole del mondo governato da Lucifero. Nel Paradiso, infine, Dante viene a contatto con la giustizia divina e la sua eccedenza rispetto alla comprensione umana. Dante, per esempio, si stupisce di trovare pagani come Rifeo e Traiano nell’occhio dell’aquila, simbolo della giustizia, e ne chiede spiegazione. L’aquila risponde «“Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta di una spanna?” […] “La prima volontà, ch’è da sé buona,  da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei consuona”» (Pd. XIX, vv. 79-88). Il poeta, riconoscendo i limiti della ragione umana, rinuncia quindi a “spiegare” la giustizia divina e si limita a raffigurare l’amore di Dio e l’insondabilità della sua giustizia. Così Dante scardina le idee ricevute, gli stereotipi, gli schemi mentali, nello stesso modo in cui opera la giustizia di Dio.

Il ciclo proseguirà il 5 dicembre con il seminario Gente selvaggia: comunità e legge in Cormac McCarthy, a cui parteciperanno Luca Doninelli e Matteo Caputo, e con due tavole rotonde – il 13 marzo 2014, sulla necessità della letteratura nella scienza giuridica, e il 10 aprile 2014, in tema di responsabilità medica, medicina difensiva e medicina narrativa.