«Il mondo della giustizia è aniconico, tutto avviene attraverso la parola, perfino i libri su cui si studia legge sono privi di immagini, anche in copertina», un’affermazione di Claudia Mazzucato, docente della facoltà di Sociologia e moderatrice dell’incontro del 10 maggio del seminario “Giustizia e Letteratura” dedicato all’opera cinematografica di Stanley Kubrick.

Se il diritto deve aspirare alla verità allora l’immagine, il vedere, non è meno importante della parola e in questo senso il cinema, che sottrae le cose all’invisibilità, può essere considerato un efficace mezzo di riflessione sulla giustizia.

La panoramica generale sull’opera del regista americano è stata affidata a Gianni Canova, preside della facoltà di Comunicazione dello IULM e critico cinematografico, che ha spiegato il punto di vista di Kubrick sull’immagine attraverso un dato curioso: «Kubrick vietava che i suoi film venissero proiettati in lingua originale con i sottotitoli nei Paesi stranieri, voleva che circolassero doppiati. Mi sono chiesto il perché: lo spettatore doveva concentrarsi sulle immagini, più importanti delle parole. Tutto il suo cinema è un conflitto tra parola e immagine». Quest’ultima naturalmente ne esce prevalentemente vincitrice. Basta far scorrere le trame dei suoi film più celebri: in Shining il contrasto è rappresentato dal padre (scrittore) e dal figlio, lo spettatore, che ha il dono della “luccicanza”, del vedere oltre; nel film Lolita il professore di letteratura, un professionista della parola, si perde nello sguardo della ragazza e ne diventa schiavo. «L’unico film autorizzato a circolare con i sottotitoli», ha aggiunto Canova, «è stato Arancia meccanica, perché l’orrore del guardare doveva essere in qualche modo compensato dal peso delle parole, ed evitare così la “cura Ludovico”, l’occhio depalpebrato, allo spettatore».

Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei Media, ha spiegato come la giustizia in Kubrick corrisponda spesso a una messa in scena, una sciarada, anche sontuosa, ma assolutamente inconsistente nella sostanza: «i due processi di riferimento sono due. Il primo è quello di Orizzonti di gloria, che si svolge all’interno di un castello e in cui è evidente che si tratta di un rituale vuoto», i tre soldati processati, accusati di codardia per essere sfuggiti a una carneficina, sono stati infatti sorteggiati per essere condannati, e già in questo unico elemento si rivela l’arbitrarietà della giustizia, nel film rappresentata dal colonnello Dax, che verrà sconfitta, quasi non contemplata. Il secondo processo analizzato da Eugeni è quello di Eyes wide shut: « un processo barocco, ma che risulterà dai dialoghi dei protagonisti come fake, falso, o stage, è un gioco, una messa in scena sul nulla, che non è il vuoto, ma è l’irrappresentabile della vita». Un processo assente è invece quello che condanna il protagonista di Arancia meccanica, Alex, al carcere. Il film è geometricamente diviso in due parti corrispondenti, come spesso accade nella filmografia di Kubrick: nella prima assistiamo alla violenza provocata da Alex, inquadrata sempre da chi la subisce; nella seconda Alex, l’assassino, finisce col diventare la vittima di un sistema giudiziario (infatti la soggettiva passa al protagonista) ancora più violento. Secondo Eugeni: «La fine del film annulla qualsiasi giustizia, il metodo Ludovico è fallito e con lui lo Stato».

La seconda parte del Seminario, affidata ai giuristi, è stata condotta da Carlo Enrico Paliero, docente di Diritto dell’Università degli Studi di Milano, che a proposito di Arancia meccanica ha aggiunto: «il film è la parabola delle dinamiche della società punitiva e dell’utopia guaritiva; il modello fallisce perché c’è un climax regressivo: la giustizia messa in atto è puramente retributiva e arriva al fallimento. L’attenzione di Kubrick per gli istituti e le rispettive dinamiche (carceri, manicomi, esercito) è notevole, in tutti i casi gli organi di controllo vengono delegittimizzati». Il diritto rimane dunque autoreferenziale e il delinquente il nemico da eliminare, anche se spesso il nemico in realtà non esiste come nel caso di Full Metal Jacket in cui il misterioso cecchino assassino è in realtà una ragazza impaurita. In Kubrick «La logica del caso predomina sulla giustizia», ha concluso Paliero.

L’avvocato Remo Danovi, che ha chiuso l’incontro, ha invece messo in luce l’assenza della dinamica di immedesimazione dello spettatore nei processi filmici condotti da Kubrick: violenza, abuso del diritto, assenza dello Stato, intervento di altri meccanismi per il ripristino della giustizia; da questa catena di eventi il regista statunitense elimina l’ultimo anello, perché, secondo Danovi: «nell’universo Kubrick la giustizia non esiste».