«Quante volte la norma giuridica è servita non alla giustizia ma al potere, non alla comunità ma all’immunità? E quante volte è stata strumento dei forti contro i deboli, strumento per aumentare le distanze anziché ridurle, per sancire le disuguaglianze anziché affermare i pari diritti e doveri delle persone?». A parlare è don Luigi Ciotti, nella prefazione al libro Perché la legalità? Le ragioni di una scelta (Vita e Pensiero, 2013). A scriverlo è Adriano Patti, giudice della Corte di Cassazione, ispirato da un ciclo di incontri con liceali a cui ha cercato di trasmettere il valore della giustizia, spiegando l’importanza della Costituzione, interrogandosi dal punto di vista del cittadino comune e da quello di magistrato. Il punto di partenza è il deficit di legalità del nostro Paese. Una tendenza addirittura individuata, con rassegnata disillusione, quando non con amaro compiacimento, quale elemento costitutivo e insuperabile dell’identità nazionale.
Cosa può fare il cittadino comune?
«Il punto di partenza è la concezione comune di Stato, inteso come comunità e retto da un principio di legalità che implica il passaggio dalla legge della forza alla forza della legge. Questo comporta l’approdo a un ordinamento che non si riduca a “governo degli uomini per mezzo delle leggi”, da fare o disfare liberamente secondo l’arbitrio del momentaneo detentore del potere, ma che sia “governo delle leggi per mezzo degli uomini assoggettati alle leggi”».
In altre parole, lo Stato di diritto?
«Sì, lo spazio di riconoscimento dei diritti di libertà dei cittadini come autolimitazione nell’esercizio della propria sovranità, nel solco tracciato dal costituzionalismo moderno. I cittadini hanno il dovere di assumere responsabilmente il compito di occupare questo spazio, di stimolo, controllo e responsabilizzazione delle istituzioni: ossia un atteggiamento di partecipazione più attiva, che è il contrario di una delega in bianco della propria rappresentanza al potere politico».
I recenti movimenti di protesta, nati dall’attuale crisi economica, hanno portato alle cronache un rigurgito di illegalità: case occupate, tasse non pagate dopo un fallimento imprenditoriale o vari pignoramenti. Che fare?
«Non credo esistano ricette, né tanto meno scorciatoie. Penso che occorra un impegno serio e responsabile a livello educativo, che investa tutti i settori della convivenza civile: famiglia, scuola, formazioni intermedie, società, istituzioni, politica. La legalità non è questione di ordine pubblico, né affare che riguardi solo le forze dell’ordine e la magistratura».
Chi deve occuparsene?
«Tutti i cittadini, nel prendere un po’ più a cuore il destino di questo Paese, sentendosene parte attiva, portandone la responsabilità. Ovviamente, per quanto a ciascuno compete, sicché ciascuno dovrebbe rispondere di quello che fa e di come lo fa. Ma questo esige un cambiamento di mentalità, per cui non ci si accontenti di realizzare esclusivamente il proprio interesse, a detrimento di quello altrui, ma si tenda ad un bene comune, in un clima di fiducia. Perché oggi il cittadino diffida dello Stato e lo stato dei cittadini».
Come superare questa diffidenza?
«Occorre rinnovare un patto di fiducia alla base del nostro convivere: questo patto noi l’abbiamo ed è la Costituzione, da inverare nella tutela dei diritti fondamentali e nell’adempimento dei doveri di ciascuno e di solidarietà sociale».
Del movimento di protesta fanno parte anche gli immigrati. Esistono realtà italiane positive in cui la legalità favorisce l’integrazione?
«Insegnano molto alcune esperienze di paesi del Sud che, attraverso un’autentica e fattiva accoglienza di immigrati, hanno saputo ritrovare energia vitale e linfa nuova per attività agricole, antichi mestieri e lavorazioni artigianali, proprio dall’inclusione di immigrati. Ciò ha avuto positive ricadute sulla qualità di vita delle popolazioni locali e addirittura generato un richiamo turistico, prima di allora sconosciuto».
Ha raccolto qualche storia positiva?
«Un esempio per tutti può essere l’esperienza del comune calabrese di Riace. In occasione dello sbarco di 300 profughi curdi ai primi di luglio del 1998, un gruppo di persone del paese si adoperò per offrire alloggio a chi avesse deciso di rimanere. Da lì nacque il ‘progetto Riace’, che ha saputo trasformare un’apparente minaccia in un’opportunità straordinaria, come ha ben spiegato Domenico Lucano, personalmente coinvolto nell’opera di accoglienza e poi divenuto sindaco. Il centro abitato, che nel secondo dopoguerra era passato da circa 3.000 abitanti a quasi 1.650, con il totale abbandono della sua parte più antica, oggi conta così 1.800 abitanti circa, di cui almeno un centinaio immigrati, che con i locali condividono un percorso di comune riscatto economico e sociale».
La legge viene spesso aggirata per motivi di convenienza; l’«Italia dei furbetti» spacca l’Italia in indignati e opportunisti. Conviene la legalità?
«Ha una sua convenienza: prima ancora che economica, per il recupero di dignità e di civiltà nella convivenza da cittadini che essa consente. L’affermazione della legalità porta con sé una riconquista di spazi di pari opportunità, di trasparenza e di giustizia sociale. L’applicazione delle regole consente, infatti, di ottenere i diritti che spettano per la realizzazione della giustizia, non per l’elargizione di favori attraverso conoscenze oblique e percorsi opachi».
Cosa determina la pratica dei favori?
«Mina profondamente il tessuto di legalità di un ordinamento civile, perché denuncia l’insufficienza delle istituzioni, della pubblica amministrazione, di chi deve garantire prestazioni e servizi che sono oggetto di diritti. Al tempo stesso, i favori consegnano all’avvilimento della propria condizione di cittadinanza chi si piega a una logica clientelare. Perché si sostituisce un atteggiamento di servizio della legge democraticamente posta con l’imposizione di una legge diversa, basata sulla forza di un potere altro, che erode e distrugge spazi di libertà (personale, civile, economica e, alla fine, politica) e deprime il livello di convivenza, non più tra pari».
Quale messaggio dare alle nuove generazioni, ai nostri studenti?
«Credo che oggi sia fondamentale rimettere al centro un impegno serio negli studi, che si accompagni a un interesse più appassionato per quanto avviene nella società, negli ambienti che ognuno frequenta e che può in qualche modo contaminare positivamente. Ripristinare un clima di fiducia, di corresponsabilizzazione e di riconoscimento del valore del merito è il primo passo da compiere per chi ha compiti educativi, dagli adulti in genere: solo se gli adulti sapranno rendersi credibili agli occhi dei giovani, facendo loro davvero posto, e non dando loro semplicemente un posto, questi potranno guardare con più fiducia al futuro ed assumere il ruolo che ad essi compete. Giovani e adulti insieme, in una continuità generazionale, assecondando il ritmo della vita».