Un tema vecchio come l’umanità e conosciuto in tutte le culture del mondo. L’ipocrisia è stata al centro del quinto incontro del ciclo di conferenze Letteratura&Letterature. Il 21 novembre, nell’Aula Magna Tovini dell’Università Cattolica a Brescia, il giovane studioso di letteratura francese Davide Vago ha presentato una celebrata commedia del Seicento: Il Tartufo ovvero l’impostore (Tartuffe ou l’Imposteur) di Molière. Accanto a lui l’attore bresciano Sergio Mascherpa che ha offerto al pubblico un’esilarante interpretazione di alcune tra le scene più divertenti.

MolièreInizialmente, la commedia di Molière, messa in scena per la prima volta nel 1664 nella reggia di Versailles, non trovò il pieno plauso del pubblico: dopo la censura della pièce originale, Molière fu costretto più volte a rielaborare la sua opera fino al 1669. Tuttavia, per il suo enorme potenziale scandaloso, agli occhi dello spettatore contemporaneo la censura della prima versione non risulta immotivata: il primo protagonista era un chierico ipocrita, un uomo religioso che sfruttava l’ingenuità di un onorevole cittadino per motivi egoistici.

Nella seconda e la terza versione, invece, il personaggio misterioso dell’impostore Tartufo non è un ecclesiastico né un rappresentante istituzionale della Chiesa. Uomo apparentemente credente, Tartufo è laico impegnato come “direttore di coscienza” – una professione molto diffusa nel Seicento – nella casa dell’abbiente borghese Orgon. Questo cambiamento consentì a Molière di introdurre il plot della commedia come la conosciamo oggi: una storia d’amore compromessa.

Dopo aver intestato in buona fede tutta la sua casa all’«onorevole» Tartufo, Orgon, l’unico della famiglia che non riesce a vedere la vera natura dell’impostore, decide di dargli in sposa la figlia Mariane, già fidanzata con Valère, del quale è sinceramente innamorata. Solo attraverso un’azione raffinata di Elmire, la giovane moglie di Orgon, il rischio del matrimonio è scampato e finalmente il capofamiglia si rende conto della falsità del suo presunto amico: ormai, però, sembra troppo tardi poiché la casa è già stata promessa all’ipocrita. La salvezza inattesa arriva tramite un messo regio che arresta Tartufo con l’accusa di essere un impostore: un lieto fine sorprendente, un vero coup de théâtre che si realizza grazie a un deus ex machina.

Attraverso anche questo finale, il drammaturgo Molière ci segnala un’altra dimensione della sua commedia: la dimensione metateatrale che è presente in tutto l’impianto strutturale dell’opera. Come noi spettatori dobbiamo sapere distinguere tra teatro e vita reale, così i personaggi in scena devono poter distinguere il bene dal male, la vera devozione da quella falsa e finta di Tartufo. Tutti riescono a capire tranne Orgon, combattuto tra i consigli della sua famiglia e le adulazioni del falso direttore di coscienza. L’aurea mediocritas, ha spiegato Davide Vago, non è sempre adeguata. Nella maggior parte di casi non è capace di salvare nessuno. Orgon, che da pater familias dovrebbe essere un honnête homme, in grado di discernere il bene dal male, non riesce a scegliere la via giusta, mettendo così in pericolo tutta sua famiglia.

Costruendo una dimensione metateatrale all’interno dell’opera, Molière provoca un ulteriore effetto: ci rende consapevoli della messinscena, del carattere artificiale dello spettacolo. E in questo modo rende visibile la maschera che tutti noi indossiamo, quando ogni giorno fingiamo di essere qualcosa o qualcuno. La verità, invece, è troppo spesso ben nascosta – proprio come il tartufo, il fungo prezioso che cresce sottoterra al buio e si scopre solo scavando in profondità.

Il Tartufo di Molière porta quindi in scena l’uomo universale nel suo tentativo di nascondere la sua vera natura senza togliersi la maschera che copre il suo volto. Come ha precisato il famoso scrittore e critico letterario Cesare Garboli negli anni Settanta, «Tartuffe, io lo incontro tutti i giorni: quando prendo un taxi, quando vado a fare la spesa, quando bevo il caffè al bar. È l’uomo che mi sta al fianco, la donna che mi saluta».