Il collaboratore di giustizia ci mette la faccia. Nell’aula magna della sede di via Trieste, nell’abito del convegno “Mafie e dintorni”, il pentito Luigi Bonaventura parla in una video-intervista a viso scoperto e senza la voce storpiata. Racconta dall’interno l’organizzazione della ‘Ndrangheta e la presenza delle mafie in Lombardia. Bonaventura può essere considerato il primo collaboratore appartenente alla ‘Ndrangheta, un’associazione di stampo mafioso impenetrabile proprio perché raramente “produce” pentiti. L’organizzazione si compone di persone che hanno fra loro legami di sangue, rendendo difficile l’allentamento delle maglie dei reciproci condizionamenti: la rottura con l’organizzazione è sempre sanzionata con l’eliminazione di chi tradisce. E l’altro, nel tradimento, diventa “non persona”.

La video-intervista si presta a una lettura basata su tre cornici di significato rappresentate da tre corrispettive parole: coesistenza, convivenza e connivenza. Il collaborante parla della sua coesistenza nella mafia e della coesistenza della ‘Ndrangheta nel territorio lombardo. Descrive il suo trasferimento al nord Italia, parlando della convivenza e della connivenza sua e della organizzazione mafiosa in questa regione.

Questi tre aspetti si rivelano assai importanti, allo stesso tempo, se si utilizzano per capire il posizionamento della popolazione locale rispetto alla mafia. In una prima fase, come ha sostenuto il Pubblico ministero bresciano Paolo Savio, si verifica il processo di infiltrazione mafiosa, che può anche essere messa in relazione ai soggiorni obbligati di molti mafiosi e che avviene a partire dagli ’70 del secolo scorso. Ma si sbaglia se si pensa che questo sia il solo motivo che ha generato la contaminazione di una terra vergine a opera di mafiosi venuti da lontano. Se non vi fosse stata “compatibilità di specie” l’accoppiamento non avrebbe prodotto nessun esito. E allora occorre ricercare i motivi che portarono dalla infiltrazione-coesistenza alla convivenza, anche in altri aspetti, di tipo economico, ma anche di tipo culturale. Infine la connivenza e/o collusione, che porta la mafia a proliferare e a edificare un vero e proprio impero al nord Italia. Momento attuale che può essere avvicinato al concetto di stabilizzazione di cui ha parlato anche Savio.

Il video è ricchissimo di descrizioni di come la ‘Ndrangheta è strutturata al suo interno, di come è percepita dai suoi affiliati. Un paio di frasi pronunciate da Bonaventura esemplificano egregiamente il pensiero dell’affiliato in merito a questa organizzazione: «La ‘Ndrangheta è la filosofia giusta, una società giusta». Da un punto di vista psicologico, si potrebbe definire una teoria forte che risponde anche sul piano simbolico a tutte le incertezze e debolezze che gli uomini comuni hanno. Questo passaggio permette di capire un punto di notevole interesse: l’idea che il mafioso ha dell’altro non mafioso. Per il primo, le persone comuni vivono in una società ingiusta, vivono una filosofia non giusta e, per questo, si devono considerare uomini confusi e di poco valore o, meglio, “non persone” che se occorre si usano e, allo stesso tempo, si scaricano quando non servono più. Per questo la loro eliminazione si rende necessaria rispetto ai canoni dell’organizzazione, deve avvenire senza dare troppo peso, senza sprecare tempo.

Oltre alle informazioni sulla struttura della 'Nndrangheta il video mostra come è vissuta e custodita la ‘Ndrangheta dentro. Nel mondo interno del collaboratore, che la descrive, dentro gli uomini affiliati, nelle persone che vivono vicine, mogli, figli, nel collaborante Bonaventura e, attraverso una ascolto del nostro mondo interno, dentro noi stessi.

Il fatto che Bonaventura parli senza camuffarsi indica, un cambiamento di posizione culturale, una mutazione antropologica: non solo si comincia a parlare di mafia, rompendo il silenzio, ma ci si mette perfino la faccia, superando così, e definitivamente, la paura di essere individuati e annientati. Una scelta coraggiosa che chiama in causa tutta la comunità, che non può rimanere indifferente ma deve dare ai collaboranti il sostegno emotivo ed economico di cui hanno bisogno, per poter almeno immaginare un progetto di vita oltre l’inferno in cui sono doppiamente precipitati, come mafiosi, prima, come pentiti, poi. Quello che può apparire razionale e comprensibile, attiva invece molte resistenze nelle persone comuni, al punto che in Sicilia la gente, nelle ricerche condotte dal professor Antonino Giorgi, considera i collaboranti “mala carne di cui bisogna diffidare”.

Per questo bisogna prendere coscienza del fatto che una mutazione di posizione, che interviene sull’identità di una persona, deve essere accolta con la qualità che rivolgiamo verso una nuova vita, perché di questo si tratta. Fino alla collaborazione di Buscetta non conoscevamo nulla della mafia siciliana, pur vivendo, a volte, gomito a gomito con essa, come è stato per tanti familiari di mafiosi (citati nel libro di Girolamo Lo Verso “Mafia e psicoterapia”), che lo venivano a sapere solo in maniera drammatica, o perché venivano arrestati i propri parenti o perché venivano uccisi. Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ma di cui quasi nessuno, prima di Buscetta ha osato farci conoscere il suo assetto organizzativo. Su questo fronte anche il primo pentito di mafia ha esitato molto negli interrogatori con Falcone, perché era estremamente consapevole che rivelare la struttura segreta di una organizzazione significava anche chiamarci in qualche modo a farne parte, e questo può irritarci, attivare resistenza, paure, ma, come insegna la psicologia clinica, è solo conoscendo che possiamo andare oltre. A questo compito la comunità non può sottrarsi, altrimenti la mafia vincerà ancora una volta e forse adesso in maniera definitiva.