Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, sale in cattedra all’Università Cattolica. Nel mese di aprile l’autore e conduttore di culto delle nuove generazioni - che di recente al Torino Film Fest 2013 si è aggiudicato il premio del pubblico per la sua prima opera dietro la cinepresa “La mafia uccide solo d’estate” - terrà cinque incontri dedicati alla produzione televisiva nell’ambito di un laboratorio che integra il corso del professor Aldo Grasso di Storia della televisione, laurea magistrale in Media management, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere. Pif, cresciuto alla scuola delle Iene, che ora miete successi su Mtv grazie al suo primo programma individuale “Il testimone”, con il suo modo di fare televisione ironico, irriverente e graffiante, ha un solo obiettivo: raccontare quello che succede senza filtri o pure formalità. Quella che il professor Grasso ha definito una sorta di “antropologia light”. Come emerge dall’articolo “Pif, il Testimone che indaga la realtà”, comparso nella sezione “L’intruso” dell’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero, nato come trascrizione di un incontro promosso a Milano, il 9 aprile 2013, dal Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

 

L’INTRUSO
Pif, il Testimone
che indaga la realtà

di Pierfrancesco Diliberto *

Sono sempre stato sicuro che ce l’avrei fatta, anche se questa convinzione si basava sul niente. Ho sempre avuto tanta gente che mi ha voluto bene. E c’è sempre stato un amico che mi incoraggiava: «Ma dai, insisti, fallo, fallo!». Per il corso autori di Mediaset – dove ho conosciuto il capo-autore de Le Iene Davide Parenti, che mi ha cambiato la vita – compilavo la domanda su internet, saltava il collegamento e pensavo: «Va beh, non è destino!». E allora c’era qualcun altro che mi spronava: «Ma no, riprova!», quasi come se facessi un favore a lui.

Cito di continuo questo aneddoto di zia Gabriella. Ero seduto sul divano di velluto e guardavo Sipario. Mi ha chiamato zia Gabriella, titolare di un’agenzia di assicurazioni a Frosinone, preoccupata perché la mia fama di quello che era un disastro in famiglia si stava diffondendo. E mi ha chiesto: «Perché non vieni ad aiutarmi in estate?». Io ho pensato: «Ma sì, guadagno un po’…». Poi mi ha proposto di rimanere. Forse oggi sarei titolare dell’agenzia, perché mia zia è in pensione. Ma allora, tra fare l’assicuratore e il nulla, scelsi il nulla. Piuttosto preferivo realizzare video di matrimoni, perché avevo a che fare con la telecamera. In Italia non è come in America, dove passi da un lavoro all’altro: se io avessi fatto l’assicuratore e avessi guadagnato, con quale coraggio avrei mollato tutto per fare il cinema o la televisione? Allora, piuttosto, preferivo rimanere nel campo, a lato.

In realtà volevo fare il regista cinematografico. Solo che fare cinema è difficilissimo. Poi da Palermo. Avevo avuto qualche esperienza come assistente nei film Un tè con Mussolini e I cento passi, dove però, in pratica, facevo il dog sitter… Appunto, volevo fare il regista. Poi ho fatto l’autore televisivo. Ed è arrivato Il Testimone.

Quando ho proposto a Mtv questo programma, ricordo che c’era una schiera di persone… A Mtv è tutto in inglese e c’è la tendenza a curare i dettagli, l’estetica. La sigla iniziale di Very Victoria era girata in pellicola. Io venivo da Le Iene che non aveva la sigla per timore che la gente cambiasse canale. Giravano in pellicola e stavano un giorno a girare un promo: qualcosa di impensabile per me. Facendo televisione in quel modo, mi dicevano: «Usiamo solo una telecamerina? Forse ci vorrebbe un fonico». Invece, la sensazione deve essere che io arrivo e dopo un po’ la gente si dimentica che c’è la televisione. Ricreo una situazione come se non fossi là per fare televisione, perché in realtà io sono là anche per levarmi delle curiosità. Sono convinto che questa sia la miglior televisione. E mi stupisco, ma mi fa piacere, che la gente non lo faccia; altrimenti saremmo in troppi. Credo che forse Zoro prenda un po’ questa strada, o Enrico Lucci con il suo programma che si chiamava Vacanze.

All’inizio usavo una telecamera Sony PC. Se riprendi George Clooney con tutta la luce, allora è George Clooney, se lo riprendi con una telecamerina Mini DV, George Clooney diventa una persona con tutti i difetti. Pretendevo di usare quella telecamera, perché era la telecamera che si usava per la prima comunione, un po’ come quando vedi il backstage di un film: vedi il film in pellicola e poi il backstage ti riporta tremendamente giù. Se vedi le cascate del Niagara in televisione sono spettacolari, ma se vedi me con la telecamera amatoriale è molto più efficace.

Lo scopo del programma è banale: non a caso si chiama Il Testimone. Riprendo quello che succede. Le persone fanno tutto da sole. È molto più semplice di quanto si possa immaginare. Se i personaggi che intervisto fossero tutti come Corona sarei miliardario: basta premere Rec e fa tutto lui. Lavoriamo sempre allo stesso modo. Dopo che con Luca Monarca, l’altro autore, abbiamo verificato l’argomento con la redazione e Mtv, se la cosa mi incuriosisce decidiamo a istinto le domande da fare e da che punto di vista la vogliamo vedere. Poi, quando si comincia, quello che succede lo si racconta: è tutto molto istintivo. Una volta mi è capitato di intervistare un personaggio che per me è un mito. Solo che arrivato lì ho capito che a lui non interessava
niente del programma. Così ho pensato: «Ma cosa sto a fare qua?». E me ne sono andato.

Chiaramente se accetti di essere intervistato sei pronto a tutto. Mi è capitato molte volte, soprattutto all’inizio, che tutti mi guardavano con perplessità. Dopo erano eccitati, perché non pensavano che uscisse un buon prodotto. Quando accetti, quindi, sei già ben disposto a farti intervistare, e metà del lavoro è andato. Il problema con i vip è che molti hanno un atteggiamento del tipo: «Il tuo programma è bellissimo, mi piace un sacco, ma non ci voglio essere». Venendo da Le Iene, ho l’etichetta di essere ironico, irriverente e graffiante. Un’etichetta che mi porto anche nella vita privata. Un giorno ero a Milano, al Parco Solari, dovevo andare in banca e non mi hanno fatto entrare. Dal citofono sentivo che dicevano: «È quello de Le Iene, ci vuole fare uno scherzo…».

 

Pif in Cattolica durante l'incontro dello scorso 9 aprile. Leggi l'articolo

 

Quando giro Il Testimone l’unica cosa a cui sto attento è questo: «Qui faccio un certo tipo di domande». Appena mi sposto, ne faccio altre, perché altrimenti ti trovi la domanda lecita, che venti minuti dopo non ha più senso. Il resto è tutto montaggio. Mi sono accorto che, quando sto lavorando al montaggio di una puntata, mi concentro sulla linea del tempo (la timeline): non guardo il video, ma le onde dell’audio. Cito Davide Parenti: «La televisione non si guarda, si ascolta!». L’idea è che la televisione la guardi magari cucinando, e quindi ti distrai. Per esempio, per me è una bestemmia – ma purtroppo capita spesso – guardare la televisione e commentare quello che vedi sullo schermo. Allora ogni volta dico: «Shhh! Continua», come se fosse un film. Però effettivamente la televisione è così: commenti, ti giri… La vera sfida sta nel conquistare gli spettatori con l’orecchio. Quello che in pratica cerco di fare.

Non sopporto, e nei Tg capita spesso, quando c’è un’intervista a un politico e c’è una troupe sola. Il giornalista fa una domanda e il politico risponde. Siccome c’è una sola telecamera, prima, si registrano tutte le risposte, poi, alla fine dell’intervista, la camera si sposta e si fanno le domande. Quindi si vede questo, che non sopporto: la domanda, il politico che parla e un primo piano del giornalista che annuisce. Sembra tutto così finto. Oppure non sopporto quando riprendono i dettagli di una mano, quando accanto al politico c’è una pianta, o quando ci sono i faretti sparatissimi. Perciò mi sono riproposto: «Voglio fare un programma in cui faccio vedere una camera e la verità!».

Ho una sola telecamera. Non ne ho due: è inutile che faccia la finta domanda. Mi giro, mi inquadro perché non ho la troupe. Se c’è poca luce con l’intervistato mi metto vicino alla finestra, e almeno è vero! Forse è meno elegante il taglio in asse, ma almeno è più onesto: ti faccio vedere dove taglio.

Nel cinema il piano d’ascolto si gira dopo, ma è vivo. Invece il piano d’ascolto del giornalista che annuisce è morto, una persona morta che annuisce a nessuno. Se vuoi sapere com’è la realtà non devi guardare la Tv: vai là e la guardi, perché comunque è filtrata dalla telecamera ed è filtrata da me. Io stesso, quando faccio un’intervista, ho delle sensazioni e poi, quando vado in montaggio, ne ho altre, e dico: «Ah, me le ricordavo diverse!». Questo è il limite del mezzo. È filtrato tutto dalla telecamera e da me. Il montaggio, invece, dà ritmo.

Quando, purtroppo, sono costretto a incontrare l’intervistato, tendo a parlare il meno possibile perché ne Il Testimone si registra proprio il momento della domanda vera. È così anche quando parlo di altro: non mi metto a leggere tutto sull’argomento, non vado nel dettaglio, perché tutte le curiosità me le deve levare la persona che intervisto. Se so già, è inutile che ti vengo a intervistare. Il punto è questo.

Sono molto basico nelle interviste. Faccio le domande che suppongo molti si facciano. Adesso c’è una redazione grossa: dobbiamo preparare un sacco di puntate e mi scrivono veri e propri dossier, documenti su cui trovo informazioni molto dettagliate. Mi fa ridere il fatto che ci sia la ragazza della produzione che segue la logistica, e che arriva in location un giorno prima di me. Quando io arrivo a destinazione – l’Islanda, per esempio – lei mi consegna un foglio e dice: «Questo è il dossier sull’Islanda», e io lo sfoglio con attenzione. Sembriamo 007. Vado a Dubai, arrivo all’aeroporto e lei mi dà il dossier di Dubai. Mi ricordo, mentre ero nel taxi, che leggevo il materiale e mi sentivo James Bond. La cosa bella del programma è che, tecnicamente, posso andare in qualsiasi parte del mondo. Solo che ogni volta che esprimo il desiderio di andare alle Hawaii, mi rispondono: «Beh, ma vuoi andare in vacanza». Perciò devo trovare una scusa per andare alle Hawaii, che per la nostra generazione restano un mito.

A un certo punto mi ha chiamato Mario Gianani della Wildside – perché il loro regista Saverio Costanzo è un fan de Il Testimone – e mi ha detto: «Ti vogliamo proporre un film», che in Italia è una cosa impossibile. E allora mi è tornato in mente un mio vecchio pallino: Giulio Andreotti. Da sempre si dice che Andreotti fosse colluso con la mafia. Ma quando cerco di spiegarlo la gente non ci crede, perché collega la mafia a Totò Riina: uno così, tarchiato… Così cerco di spiegare che nella mafia c’era anche Stefano Bontate, che doveva essere una persona interessantissima se ci andavi a cena. A forza di dirlo ho cominciato a leggere un po’ di libri e ho capito che negli anni Settanta e Ottanta Palermo era una città di folli. Quando i mafiosi si ammazzavano tra di loro, la gente diceva: «Va beh, finché si scannano chi se ne frega». Poi, quando ammazzarono Paolo Giaccone, un medico del Policlinico, non mafioso, dicevano: «Era un “femminaro”. Se l’è andata a cercare, non l’hanno mica ammazzato perché c’è la mafia a Palermo. Se uno non se le cerca non ti ammazzano».

Nel film che ho diretto ho deciso di raccontare questo con gli occhi di un bambino che va in giro con la mamma. Tutti dicono, facendo il nome di un poliziotto ammazzato: «Era un femminaro!». Il bambino si innamora di una bambina. Però scappa, perché pensa: «A Palermo se ti innamori ti ammazzano!». Ho inventato una storia che non esiste, la vita privata di un bambino che non esiste – potrei essere io o qualsiasi altro – inserita nei fatti realmente accaduti a Palermo. Perciò ci sono momenti in cui ridi e momenti in cui ti do un cazzotto in pancia, come per dirti: «Ora non ridere più!».