Around the end”, nei dintorni della fine, ovvero intorno alla morte. Una tematica che spaventa e riguarda tutti, ma che diventa un terreno fondamentale d’indagine per la psicanalisi. Marco Riva, psicanalista dell’ospedale Fatebenefratelli, ha presentato all’Università Cattolica un filmato inedito in cui Freud, Jung, Lacan, Bion e Musatti vengono intervistati sul tema della morte. «Il video non è che il frutto di vent’anni di lavoro al fianco di malati terminali del reparto di oncologia – ha spiegato Riva, dopo l'introduzione di Osmano Oasi della facoltà di Psicologia della Cattolica -. Fino a cinque anni fa la nostra collaborazione si spostava su richiesta. Inizialmente ci servivamo solo di strumenti farmacologici, ma col passare del tempo il nostro lavoro si è incentrato sulla pratica psicoanalitica, fino alla creazione di un vero e proprio laboratorio di psiconcologia». Il documentario proposto da Riva è quindi un omaggio ai grandi della storia della psicanalisi posti di fronte al tema della morte e dell’angoscia che essa genera tra gli uomini.

La psicanalisi vissuta come cura della nevrosi, a tu per tu con le pulsioni della vita che diventano un motore vero e proprio per l’inconscio: così Freud, ormai prossimo alla morte, viene ritratto dal documentario nel 1938 a Londra, dove è fuggito dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Si passa poi al 1959, dove Carl Gustav Jung, padre della psicoanalisi analitica, viene ritratto alle prese con la determinazione del distacco dalla psiche con le direttive di spazio e tempo, sancendone così una sorta di immortalità della stessa e facendo della morte un traguardo per un inconscio minacciato. Il documentario di Riva rende omaggio a Jung individuandolo sullo sfondo della copertina di Sgt. Pepper’s dei Beatles accompagnato dalle note di Strawberry fields forever.

Con un salto temporale di un ventina d’anni si arriva ai celebri seminari di Jaques Lacan. La presenza scenica dello studioso francese è totale, un vero vulcano in eruzione. Lacan definisce la morte come territorio della fede, ma allo stesso tempo afferma che la consapevolezza della sua non esistenza renderebbe la vita insopportabile. Sembra un paradosso, ma Lacan si spinge oltre narrando di un sogno pascaliano di un suo paziente che racconta la rinascita di una nuova esistenza ogni giorno: sarebbe un incubo. In antitesi con la forza scenica di Lacan, Riva propone, statuaria e nitida, la loquacità di pensiero di Wilfred Bion che si addentra verso il nocciolo della questione, toccando la tematica principe dell’angoscia di morte in un malato terminale. Bion vede in qualche modo il bicchiere “mezzo pieno” e ritiene ingiusto definire una malattia o una persona come “terminale”, poiché bisogna considerare la prospettiva di morte in funzione del tempo che ancora deve venire e che deve essere vissuto al meglio. Ed è proprio su questo periodo che è ancora da vivere che la psicoanalisi deve spremere le sue forze, levando quell’angoscia che lega l’uomo al tema della morte. In ultimo, se non per ordine cronologico, l’attenzione di Riva si sposta su Cesare Musatti, importatore in Italia della psicologia della Gestalt.

«Crea una certa suggestione parlare di psicanalisi partendo dalle immagini - spiega Marco Sarno, della società psicoanalitica italiana, riferendosi al filmato di Marco Riva –. Ci troviamo di fronte a un confronto di linguaggi, tra quello iconico e quello linguistico, dal quale non si può non evidenziare uno scarto. Dopotutto anche Freud era partito dai sogni, che di fatto sono l’unione di immagini e parole, sebbene il sogno non sia un quadro ma un vero e proprio minirebus da risolvere. Il pensiero mimico non è quindi che un film e questo film ci pone di fronte al sogno della morte». Ed è questo sogno che nell’umano può creare angoscia e paura: «Il sogno di morte non possiamo che guardarlo di traverso per la paura – continua Sarno -, tuttavia nel video i protagonisti lo affrontano alla loro maniera. Chi, come Jung, lo allontana da una costruzione per categorie e chi, come Lacan, parla dell’inquietudine della ripetizione di questo sogno». Ma le considerazioni si concentrano su un punto fondamentale che deriva dal ragionamento proposto da Bion: ovvero che il lavoro della psicanalisi deve puntare a rendere sopportabile l’esistenza, invitando questa disciplina a non indietreggiare davanti alle malattie somatiche, come un cancro terminale.

«La morte non è una malattia, non prevede una cura, eppure durante la nostra esistenza ne siamo angosciati – spiega Eugenio Gaburri, membro della Società psicoanalitica italiana -, ma la spiegazione è da cercare dentro Bion, quando ci suggerisce che ciò deriva dall’accanimento delle cose che non sappiamo spiegarci come affrontare. La paura della morte attiva quindi la psicanalisi proprio perché la morte è irreversibile». Quello che quindi sollecita Gaburri dopo la visione del documentario di Riva è affrontare questo limite per giungere alla rielaborazione del lutto e riuscire a sconfiggere l’atteggiamento “ipocrita” dell’uomo, decritto da Freud.