“La legge non ha mai forgiato un grande uomo, mentre la libertà genera colossi e azioni immani” afferma Karl nel dramma di Friedrich Schiller (1759-1805) I Masnadieri, opera con la quale la stagione dello Sturm und Drang raggiunge un nuovo apice ma vede anche il proprio definitivo superamento. Gli esiti tragici dell’individualismo titanico scaturito da uno sconfinato desiderio di libertà sono al centro di questo celebre testo, presentato da Lucia Mor, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del quarto incontro del ciclo Teatro 2011. La lezione ha avuto luogo giovedì 17 novembre ed ha visto anche la presenza dell’attore Giorgio Lanza.

Alla fama Schiller giunse giovanissimo proprio con I Masnadieri (Die Räuber), pubblicati anonimi nel 1781 e la cui prima messa in scena, il 13 gennaio 1782 al Teatro Nazionale di Mannheim, ottenne un successo immediato e grandioso: l’opera valse al giovane ufficiale medico l’appellativo di ‘Shakespeare tedesco’. Il dramma attaccava le istituzioni politiche e sociali del tempo con inaudita violenza, tanto che il direttore del teatro di Mannheim, Heribert von Dalberg, costrinse Schiller a modifiche importanti per la messa in scena, prima fra tutte la trasposizione della vicenda dall’età contemporanea al tardo Medio Evo. L’opera, esuberante nella ricchezza dei temi presentati, ha avuto un’ampia ricezione: è stata ad esempio definita dramma politico ma anche dramma naturalista, perché ritrae la miseria sociale del secondo Settecento, dramma dell’illuminismo ma anche dell’anti-illuminismo, perché mette in luce le derive di una razionalità sganciata da valori etici e religiosi, dramma psicologico ma anche religioso, perché l’autore tocca il problema della teodicea e mette in bocca al diabolico Franz i grandi interrogativi dell’uomo sull’esistenza di Dio e sulla giustizia divina: e queste sono solo alcune delle sue innumerevoli sfaccettature.

L’impianto della tragedia si basa sui conflitti che animano gli esponenti di una nobile famiglia della Franconia: da un lato il vecchio conte Maximilian von Moor, debole e lamentoso, dall’altro i due figli, il ‘nobile ma impetuoso’ Karl e il ‘diabolicamente perfido’ Franz, come Ladislao Mittner definì i due giovani protagonisti. Franz Moor carpisce al padre l’autorizzazione a rispondere al fratello Karl che, pentito della vita goliardica e scapestrata condotta nella città universitaria di Lipsia, aveva scritto all’anziano genitore chiedendogli perdono; ma Franz invia a Karl una perfida lettera con la quale gli comunica che il padre lo ripudia e lo disereda senza appello. La bruciante delusione spinge l’impetuoso Karl a porsi a capo di una banda di masnadieri con il proposito di vendicare ovunque torti e ingiustizie. Franz, che vorrebbe sedurre Amalia, la fidanzata di Karl, finge che il fratello sia morto in battaglia; per il dolore il vecchio padre perde i sensi e Franz, privo di qualsiasi scrupolo, ne annuncia cinicamente la morte, lo fa rinchiudere in un castello in rovina nel bosco e ne prende il posto. Spinto dalla nostalgia per i luoghi della sua fanciullezza, dopo qualche tempo, Karl torna in incognito alla casa paterna e scopre i misfatti di Franz; quest’ultimo riconosce però il fratello e entra in uno stato di angoscia mista a terrore; la paura della morte lo porta sull’orlo della pazzia e, atterrito all’idea del castigo eterno, si strangola. Il padre, liberato nel frattempo da Karl, non resiste alla rivelazione dell’amato figlio che gli confessa di essere il capo della banda dei temuti e violenti masnadieri e muore di crepacuore. Karl, ritenendosi ormai indegno di Amalia, disperato, su richiesta della stessa Amalia, la uccide, per poi però consegnarsi alla legge con un nobile gesto: sapendo che su di lui pende una taglia di 1000 luigi d’oro decide di aiutare un pover’uomo che lavora a giornata e ha undici figli.

Portavoce di un’appassionata invettiva contro il suo secolo, la sua decadenza morale, civile, religiosa e sociale, Karl incarna una declinazione pericolosa dell’io titanico dello Sturm und Drang: scegliendo di diventare capo di una banda di masnadieri, Karl si propone come il paladino di una presunta giustizia che agisce però fuori dalla legge: come ha scritto Hegel nella sua Estetica, offeso dall’ordine esistente e dagli uomini che abusano della potenza di esso” Karl esce dall’ambito della legalità “si fa restauratore del diritto ed autonomo vendicatore del torto, dell’iniquità e dell’oppressione. Ma questa vendetta privata può condurre solo al delitto, in quanto racchiude in sé il torto che vuole distruggere”.

Titanica è anche la figura del fratello Franz che ordisce il diabolico piano di sciogliere i legami più stretti, quelli familiari. La sua malvagità è però diversa da quella del fratello idealista e giustiziere in un mondo corrotto; Franz è un tiranno senza scrupoli che mira unicamente all’autoaffermazione e per questo progetta cinicamente di eliminare dalla sua strada sia il padre sia il fratello. Nel modo in cui l’autore indaga i meccanismi della psiche e della mente di Franz si rivela non solo l’abile drammaturgo, ma anche il medico Frirdrich Schiller, convinto dell’esistenza di un inscindibile nesso tra la natura animale e la natura spirituale dell’uomo, tema della sua tesi di laurea. Franz progetta con lucida e gelida razionalità di eliminare il padre Maximilian con la forza devastante delle emozioni, esercitando una violenza fatta di sadismo psicologico e di tortura sentimentale. Anche Franz, secondo il quale “i limiti delle nostre forze sono le nostre leggi”, dovrà però affrontare la sua tragedia: quel Dio da lui sempre negato a favore di un nihilismo radicale che trova nella sete di potere l’unica ragione dell’esistenza (“voglio distruggere tutto ciò che mi impedisce di essere il padrone”) diventerà oggetto di una riflessione carica di angoscia di fronte alla morte. In un addolorato sfogo, Franz si chiederà “se ci sia un occhio al di là delle stelle”: il grande interrogativo che egli si pone sulle ragioni della sofferenza umana resta senza risposta, ma ciò nonostante il titano ormai disperato si consegna a quel Dio ignorato, e che però ora teme, con un accorato “Abbi pietà di me”.

I masnadieri sono la tragedia del titano presuntuoso e arrogante che vuole vivere senza la legge e senza Dio, al quale si sostituisce in un delirio di onnipotenza; tale figura, che ricorda il Prometeo goethiano, non riesce però a portare a termine la sua missione e fallisce tragicamente; il genio stürmeriano prende coscienza dell’impossibilità di una libertà intesa come un’esistenza condotta fuori dalla legalità, dal rispetto dell’uomo e della sua dignità; ma l’opera mostra anche il pericolo di una razionalità che, sganciata da valori etici e religiosi, può divenire strumento di sterminio; in questo modo Schiller mostra quanto sia illusorio il nesso fra amore e ragione su cui si era basato l’ottimismo illuminista. La riflessione sulla costruzione di un umanesimo che nasca da ideali di verità, bellezza e giustizia fu alla base del sodalizio artistico che più di dieci anni dopo il successo de I masnadieri si sarebbe instaurato a Weimar tra Friedrich Schiller e Johann Wolfgang von Goethe. Su questo sfondo Schiller non venne mai meno al convincimento che il teatro debba svolgere il ruolo di istituzione morale. Significativo è che fin dalla prefazione de I Masnadieri, il giovane drammaturgo si augura che il suo pubblico: ”non ammiri il poeta, ma stimi in me l’uomo giusto”.