«Fin da piccoli impariamo una lingua che è la lingua del potere e siamo vittime di tic linguistici dei quali spesso non siamo consapevoli. Quando diciamo ad esempio "un uomo povero ma onesto" senza accorgercene formuliamo un giudizio implicito. È importante invece che la lingua, soprattutto per gli uomini di diritto, si attenga ai fatti e in questo senso la letteratura si configura come un antidoto alla lingua del potere». Gabrio Forti, direttore del Centro studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Cgpc) e preside della facoltà di Giurisprudenza, ha aperto così l'incontro del ciclo seminariale Giustizia e Letteratura, che ha visto protagonista il 2 maggio Leonardo Sciascia, «il primo scrittore che ha fatto della mafia materia narrativa», come ha detto Velania La Mendola, membro del Comitato di redazione della Rivista internazionale di studi sciasciani "Todomodo" e relatrice all'incontro sull'autore di Racalmuto per la parte letteraria.

Attraverso la ricostruzione della tortuosa vicenda editoriale che portò alla pubblicazione del romanzo più celebre di Sciascia Il giorno della civetta, quello in cui don Mariano Arena assurge a simbolo della mentalità mafiosa e per il quale lo scrittore è stato al centro di polemiche anche in anni recenti, Velania La Mendola ha fatto emergere l'affinità tra questo e un altro grande nome della nostra storia letteraria, Italo Calvino: per entrambi infatti le cose che la letteratura può insegnare «sono poche, ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell'amore in essa».

Ed è proprio il Giorno della Civetta il libro che Roberto Scarpinato, oggi Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo e ospite dell'incontro dalla parte del diritto, aveva in mano quando, a vent'anni, aveva ancora l'illusione che le cose potessero cambiare e per questo trovava - come ha raccontato - che Sciascia avesse «una visione pessimistica dell'Italia, nei suoi romanzi dipinta come un Paese irredimibile». «Ma a 35 anni - ha continuato - mi sono trasferito a Palermo, a lavorare in prima linea contro la mafia e lì ho capito che Sciascia aveva ragione: mi trovai catapultato in uno dei suoi romanzi». Di qui la riscoperta dell'autore siciliano e l'amaro riconoscimento che «la sua diagnosi si riconfermava di piena attualità», perché i dialoghi nelle pagine di letteratura diventavano così «tanto osceni quanto reali».

Come Sciascia, Scarpinato ha capito, in questi duri anni di lavoro che lo hanno visto anche al fianco di Falcone e Borsellino, che in Italia è centrale il rapporto tra potere e giustizia: siamo in «un Paese senza verità» e stragismo, omicidi politici e depistaggi ne sono la dimostrazione lampante. Come nei romanzi di Sciascia, la verità cui perviene il singolo non diventa mai collettiva, istituzionalizzata e mentre vengono condannati gli esecutori materiali, i mandanti restano intoccabili. Scarpinato cita anche i Promessi Sposi: «Non una storia di un amore difficile che arriva a un lieto fine, ma un libro disperato, dove i bravi sono criminali al soldo di un potente, per redimere il quale Manzoni ha dovuto per forza chiamare in causa la Provvidenza». Chi si trova a lavorare contro la mafia in questo Paese, dunque, non perde solo, nel migliore dei casi, la tranquillità e la sicurezza personale, ma soprattutto, ed è quel che pesa di più, «la fiducia nelle persone, l'innocenza dell'infanzia e della giovinezza».

Resta tuttavia ancora una speranza secondo il Procuratore: «Sono state le minoranze a salvare questo Paese. Falcone e Borsellino all'inizio erano quattro gatti contro tutti». Con la stessa speranza lo scrittore racalmutese aveva intitolato il suo romanzo sulla mafia citando l'Enrico VI di Shakespeare e si era in parte immedesimato nel capitano Bellodi: «Mi ci romperò la testa», fa dire al suo personaggio lo scrittore, che dichiara «vorrei tirarmene fuori, mastico quotidiana disperazione: ma quando mi si offre la possibilità di evadere, finisce che trovo a me stesso una scusa per restare». Così, proseguendo idealmente il discorso di Sciascia, Scarpinato avverte: «Bisogna che ci aggrappiamo alla nostra estrema salvezza, che è la Costituzione: questo sarà sempre il punto da cui ripartire e per riguadagnarci il futuro, che non è tempo che sopraggiunge, ma qualcosa che si costruisce».