Il profilo del paziente in dialisi nel Lazio è molto cambiato negli ultimi vent’anni. Grazie all’istituzione di un importante strumento introdotto da Laziosanità, Agenzia di Sanità pubblica della Regione Lazio nel 1994, il Registro Dialisi del Lazio, un gruppo di ricercatori sotto la guida del nefrologo Luigi Tazza, dell’Istituto di Clinica Chirurgica dell’Università Cattolica - Policlinico “A. Gemelli” di  Roma, ha potuto studiare come sono cambiati i pazienti che hanno bisogno di recarsi ogni tre giorni in ospedale per “pulirsi” il sangue, in attesa di un trapianto di reni.

Uno dei punti di forza dell’analisi, pubblicata di recente sulla rivista Nephrology Dialysis Transplantation, è che analizza tutto il campione dei dializzati nel Lazio fra il 1995 e il 2006, quasi novemila persone. I ricercatori hanno studiato la mortalità, le cause di morte e i fattori di sopravvivenza di queste persone.

 

“Non possiamo dimenticare”, spiega infatti Luigi Tazza, “che negli ultimi quaranta anni la sorte dei pazienti con danno renale cronico è cambiata moltissimo: nei primi anni Sessanta erano praticamente tutti destinati a morire, mentre con gli anni la platea delle persone che hanno avuto accesso alla dialisi è andata aumentando significativamente. Fino agli anni Settanta era limitata ai pazienti giovani che avevano più chance di poter essere sottoposti un giorno a trapianto, e piano piano negli anni Ottanta e Novanta alla dialisi hanno avuto accesso pazienti sempre più avanti con gli anni”.

Le domande a cui i ricercatori hanno cercato di dare risposta, analizzando i dati dei 9000 laziali, sono quelle che i medici si fanno per capire se stanno lavorando bene o no. “Ha effettivamente senso sottoporre tutti i pazienti a dialisi, o il disagio che deve vivere una persona anziana non è compensato dalla maggiore sopravvivenza? Come sono i risultati? Possiamo allungare la sopravvivenza dei nostri pazienti? Come possiamo migliorare? Tutte queste domande sono quelle che ci hanno spinto a intraprendere questo lavoro”, dice Tazza.

 

I dati hanno riservato sorprese interessanti. Innanzitutto sono aumentati di molto i pazienti dializzati: se nel 1995 erano circa 2800, nel 2006 erano 4100. Si tratta cioè di un aumento molto superiore a quello della popolazione. È aumentata l’età media (61 contro 67 anni nel 2006), la percentuale di maschi è superiore (63% contro il 37% di femmine) e la percentuale di ultrasettantaquattrenni è passata dal 14% al 32% nel 2006, il che significa che le persone più avanti negli anni accedono di più alla dialisi e solo gli anziani vivono più a lungo. I pazienti in dialisi, inoltre, sono più spesso affetti da altre malattie che colpiscono altri organi. Nel caso specifico, una malattia sempre più comune è il diabete: nel 1995 solo il 14% dei dializzati era anche diabetico; nel 2006 la percentuale è arrivata al 20%, in linea con la media di altri paesi del mondo.

“Quest’ultimo dato si può spiegare in due modi”, commenta Tazza. “Il primo è che oggi alla dialisi possono accedere anche soggetti un po’ meno ‘sani’ a cui vent’anni fa l’accesso non sarebbe stato possibile. La dialisi infatti è una terapia abbastanza intensiva e per un soggetto affetto da molteplici e seri problemi di salute sarebbe potuta risultare impraticabile anni fa. La seconda ragione è che, a livello mondiale, stiamo assistendo all’esplosione di una vera e propria epidemia di diabete, le cui ragioni non ci sono ancora del tutto chiare. E questo si riflette anche sui nostri pazienti”.

 

Uno dei risultati più interessanti per i ricercatori è che la mortalità annuale è praticamente identica: circa 14 persone ogni cento all’anno, e questo nonostante l’aumentato numero di pazienti, la loro maggiore età e le peggiori condizioni cliniche in cui iniziano la dialisi. “In sostanza, una conferma del fatto che stiamo migliorando le cure e che la scelta di far accedere tutti alla terapia è stata corretta”, chiosa Tazza.

“C’è un elemento clinico che per noi riveste una certa importanza”, dice ancora Tazza. “Il fatto che ci siamo accorti che i fattori prognostici che meglio predicono la sopravvivenza dei nostri pazienti sono due: il livello di anemia all’inizio della dialisi e il loro grado di autosufficienza, che viene valutato per tutti i pazienti in una scala da uno a sei all’inizio della terapia. In sostanza, se i livelli di globuli rossi nel sangue sono stati corretti farmacologicamente prima dell’inizio della dialisi, il paziente ha una maggiore aspettativa di vita. Lo stesso vale per i pazienti autonomi: quanto più sono autosufficienti, tanto più a lungo possono aspettarsi di sopravvivere. Altri elementi, come il diabete o l’epatite virale, contano meno rispetto alla sopravvivenza nel primo anno. Cominciano a diventare importanti solo nella sopravvivenza a lungo termine”.

 

La conclusione che traggono i ricercatori è che si devono concentrare gli sforzi sulle terapie precoci, come quella per contenere l’anemia, e sulle cure cardiologiche: in oltre la metà dei pazienti le malattie cardiovascolari rimangono la prima causa di morte. “Non dobbiamo neppure trascurare”, conclude infine Tazza, “di prevenire e curare la malnutrizione, ancora una delle cause importanti di morte in questi pazienti, che spesso, a causa della malattia, perdono, insieme alla capacità di percepire i sapori, il desiderio di alimentarsi”.