Lottare contro la tratta degli esseri umani si può, anzi si deve. È il chiaro messaggio emerso dal seminario organizzato dalla Onlus Capramagra in collaborazione con l’Università Cattolica. L’associazione di ex studenti ha coinvolto alcuni professori dell’ateneo, come i docenti della facoltà di Scienze Politiche Andrea Santini e Monica Spatti ma anche ospiti esterni impegnati a livello legislativo e pratico nella tutela delle vittime. La tratta delle persone è un tema spinoso e i media ne parlano soltanto in modo marginale. Per questo è importante sensibilizzare attraverso incontri informativi, con un richiamo particolare al diritto e alla cooperazione internazionale. Gli strumenti giuridici non mancano. La convenzione di Palermo, la convenzione del Consiglio d’Europa e la direttiva dell’Unione Europea del 2011 lo dimostrano. Decisiva però è l’attuazione delle norme e l’assistenza alle persone sfruttate.

La tratta di esseri umani non va confusa con l’immigrazione illegale. Il processo inizia con il reclutamento delle vittime nei paesi di origine attraverso l’inganno o la violenza, e, dopo il trasporto clandestino, finisce con lo sfruttamento nel paese di arrivo. Le persone sono costrette a lavorare in condizione di schiavitù, spesso assoggettate con il ricatto economico o il ritiro dei documenti. I profitti poi vengono riciclati nel circuito legale oppure utilizzati per altri traffici illeciti. I bassi costi delle operazioni e le poche denunce attraggono molti criminali, veri e propri network di persone che usano a proprio vantaggio le insufficienze legislative.

Il nostro Paese è un esempio da seguire perché ha ratificato il protocollo delle Nazioni Unite con la legge 228/2003 sulle misure contro la tratta di persone e la riduzione in schiavitù: dure le pene per i colpevoli, reintegro sociale per le vittime. Anche in Italia, infatti, bisogna fronteggiare lo sfruttamento sessuale, quello lavorativo e l’accattonaggio, tre mercati fiorenti per i traffici criminali. Ragazze albanesi, nigeriane e moldave, ma anche cinesi e trans gender sono vittime di speculazione nonostante la chiusura di tanti canali clandestini in Africa o nei Balcani.

Due casi in particolare sono stati citati da Marina Mancuso di Transcrime: l’operazione Foglie nere ad Ancona nel 2009 e l’operazione Shanti del 2011. Nel primo caso una ‘madame’ nigeriana legava a sé giovani ragazze anticipando loro dei soldi per venire in Italia, e pretendeva di essere ripagata attraverso le prestazioni sessuali. Una volta arrivate nel nostro paese, le vittime non denunciavano lo sfruttamento perché minacciate con riti vudù o semplicemente allettate con vitto e alloggio. Dalla Polonia invece arrivavano donne adescate con l’inganno: 1.500 euro per lavorare in un bar la promessa, il lavoro da accompagnatrice in un night di Campobasso la dura realtà. Stipendio sempre più basso per le ragazze che rifiutavano le avances dei clienti fidati, rapporti soltanto all’esterno del locale e soldi trattati soltanto indirettamente: ecco gli escamotage degli aguzzini italiani.

In questi casi il permesso di soggiorno come risarcimento per le vittime non è la soluzione. Come ricordato da Ariela Mitri di Caritas Albania, è decisivo il reintegro delle vittime nelle famiglie prima ancora che nella società, la possibilità economica ed affettiva di ripartire, un aiuto a scegliere di uscire dallo sfruttamento. Tanta la strada ancora da fare, ma le persone impegnate sul campo non mancano. E questa è già la prima speranza.