di Agnese Veneroni *

Arrivare di notte in Sri Lanka rende tutto ancora più misterioso. Il mare non si vede ma sappiamo che c’è: si sente il rumore delle onde e il profumo salmastro nell’aria. Arriviamo al Seminario, nostra casa per le successive tre settimane, e veniamo accolte da volti sorridenti, tra cui padre Charles che ha reso la mia avventura ancora più profonda. Parlano una lingua che sembra inglese, ma forse è solo la stanchezza del viaggio a rendere tutto confuso. Si va a dormire.

La mattina, quando mi sveglio e guardo fuori dalla finestra vedo uno spettacolo fantastico: palme, alberi del pane e scimmie. Ma ho soltanto un’ora per fare colazione, lavarmi e vestirmi perché il Summer Camp sarebbe iniziato di lì a poco. E così, con emozionante attesa, aspetto che arrivino i bambini, che poi si scopre essere tutte bambine con vestiti colorati e grandi occhi castani. Mi sembra di vedere della diffidenza nei loro occhi ma forse è solo il riflesso di quello che vedono nei miei. Sono curiosa di iniziare le attività e di giocare con loro. Parlano tra loro in una lingua divertente, non capisco quello che dicono ma non importa.

Uno, due, tre, iniziamo. La comunicazione è un po’ lenta ma sembra essere efficace: noi parliamo in inglese. Chi lo capisce, di solito le suore che accompagnano le bambine, lo traduce in Singalese e in Tamil. È divertente ascoltare questo scambio di informazioni in tante lingue diverse: ti fa sentire parte di un qualcosa di più grande, di più importante, di più complesso.

I giochi sembrano piacere alle bambine, disegnare, colorare, scrivere, ma quello che davvero le entusiasma è ballare. E così, la sera, si improvvisa una festa: le ragazzine suonano tamburelli, ballano e cantano. Mi meraviglio della loro voglia di stare assieme e di divertirsi: non si erano mai viste prima ma ora condividono spazi ed emozioni. Mi unisco ai festeggiamenti, anzi, in realtà, una bambina di otto anni mi prende per mano, mi guarda e dice: “Dance!”, trascinandomi con tutto il suo entusiasmo in mezzo al gruppetto dei ballerini. Mi piace stare con loro: durante il giorno ti guardano con i loro grandi occhi, ma sono serie perché fanno molta attenzione e seguono le istruzioni alla lettera. Ma la sera si trasformano: ti parlano, anche se sanno che tu non puoi capire quello che dicono, ti sorridono e ridono con te, ti coinvolgono e vogliono essere coinvolte. Soprattutto le più piccole.

Le ragazzine un po’ più grandi, invece, ti portano in giro nel giardino e ti mostrano il loro mondo, ti insegnano parole e ti dicono che sei bella, dici in inglese che anche loro lo sono, e tanto anche, ma non tutte capiscono; così sorridi e glielo spieghi a gesti: anche loro sorridono. Il Summer Camp, purtroppo, dura solo due giorni, e così un sabato mattina molto presto mi sono trovata a salutare tutte quelle mani, manine e manone che sporgevano dai finestrini di un pullman retrò, che non dimenticherò mai. Al momento dell’addio (che poi addio non è stato perché nelle settimane successive, alcune di loro le avremmo riviste), mi è sembrato di vedere qualche occhio lucido con qualche lacrima nascosta, ma forse era solo la mia speranza.

Ho deciso di raccontare i primi due giorni della mia esperienza non perché le successive settimane non siano estate piene di curiosità ed emozioni, ma perché  sono stati assolutamente unici, difficili da spiegare a parole: nonostante sia passato già parecchio tempo, ho gli occhi e le orecchie ancora pieni di colori, suoni, profumi e sensazioni. Ricordi che mi porterò dietro per tutta la vita. Grazie, quindi, a tutte le persone che mi hanno incontrata perché mi hanno lasciato qualcosa e mi hanno confermato che non sempre le parole servono, ma che a volte uno sguardo, un abbraccio e un sorriso sono abbastanza.

* 25 anni, di Milano, secondo anno della laurea magistrale in Psicologia dello sviluppo e della comunicazione, sede di Milano