di Angela Giannini *

“Pagina bianca”. Era l’immagine con cui identificavo l’India prima di cominciare a percorrere qualche chilometro più a est. Proprio come quell’orizzonte di foglio che, ora, guardingo e senza chiedere, mi fissa e attende il mio racconto di viaggio. Uno, due, tre giorni, ancora una settimana dopo, guardo le terrazze bianche e i panni stesi a inaridirsi del mio borgo nel tacco d’Italia e, tra gli altri, cerco il tetto del Bala Vikasa Training Center di Fathimanagar. Di colpo, li sento tutti i diecimila chilometri che mi separano da quella terra.

Per arrivare al cielo di cui parlo bisogna spingersi alla fine di una via, in una frazioncina alla fine di un distretto rurale dell’India centrale, in cui si arriva alla fine di un volo di dodici ore. Poi, davanti a te, compare l’inizio del mondo, battezzato dal sorriso smagliante e dalle braccia aperte di un indiano che, per venirti a pendere, ha lottato contro tentacoli di strombazzanti macchinette gialle, biciclette ardite quanto i loro conducenti, arrotini, mucche, zanzare che inscenano dei touch-and-go su piste di braccia rivolte alla polvere. E scooter tramutati in utilitarie per tutta la famiglia, che le leggi della fisica indiane spiegano così: «Ogni corpo immesso su un sellino riceve una spinta orizzontale dal corpo di quello di dietro, tale da evitare la caduta verso il basso e da spostare una quantità di veicoli voluminosi in misura direttamente proporzionale alla forza di volontà di una famiglia unita».

Tutto ciò con l’espressione statuaria nel viso borioso di un colonizzatore inglese davanti alla sua tazzina all’ora del tè: imperturbabile. In fondo, non si può bussare al cielo per così poco, ché tanto nemmeno ce le trovi le divinità lassù, a grattarsi la pancia su una nuvola. Ganesha, il dio elefante, senza ali e con le zanne tarpate, ha preferito non far miracoli con la Legge di gravità rinunciando all’ebbrezza del volo: preferisce piuttosto riprodursi in migliaia di piccoli sé, angeli tossici e dalle piume color evidenziatore, e stare a guardare, per una settimana all’anno, i suoi devoti danzanti, prima di farsi scivolare negli abissi di qualche laghetto inquinato cittadino, dove detiene la residenza ufficiale. Ci pensano poi i lampi a cielo spento a mettere fine agli ultimi bagordi.

La notte è multicolour, esplode la festa, implodono i problemi, le colline di sterco ai lati delle strade, i veli di donne raggomitolate intorno alle loro dignità, le bottiglie di soft drink stappate, i clacson imbufaliti, i minareti che gracchiano, i richiami giurassici di venditori a bordo strada, i capi dei giovani coi loro sogni che fanno rumore, le nenie di chi non si stanca di essere mamma. Chiedilo all’anima quanto è lungo un momento così.
 
Sgocciolano gli ultimi monsoni su di noi: il vantaggio di arrivare tardi all’appuntamento con l’ombrello è il pretesto per correrci dentro e seminare sorrisi tra gli alberi, attracchi tra il cuore e il molo. E poi sorridere sembra la scelta etica più in voga in India, il “c’era una volta” di ogni storia che ti vogliono raccontare, anche la più triste. Namasthe, sorriso che tende ad infinito. Nel valzer triste delle loro pupille, tuttavia, si può leggere una richiesta d’aiuto al mondo ingabbiato fuori da quei crani ornati di fiori e trecce. Impercettibili e silenti quelle richieste provenienti da vite diroccate, ma ancora in piedi. Lo strazio ne vien fuori amplificato. E poi ho visto intorno a me uomini e donne “larghi”, votati alla vastità d’animo, che preferiscono consacrarsi agli altri piuttosto che a un nano da giardino, innamorati di un amore per gli altri che arrossisce, che rifugge le messe in posa e le messe in pausa, costante e metodico. Ho visto persone che mi hanno mostrato come tacere in modo eloquente possa rivelarsi una buona opzione.

Nelle nostre tre settimane di corso in “Community Driven Development”, in cui dormire a lezione era considerata un’intrusione, abbiamo appreso come si possa assistere a un cambiamento concreto nel contesto di comunità rurali sottosviluppate, per cui ci vuole un approccio che stuzzichi le potenzialità presenti, senza forzature, e che consideri ogni sfaccettatura della situazione, finanche quella socio-culturale. Nessuno smercio di idee di libertà, debiti e assegni a vuoto con le buone intenzioni.

Avrò pure dimenticato di comprare i francobolli ma ho guadagnato parole da scrivere nelle lettere. Mi sarò persa qualche scatto d’effetto, ma ho colto i guizzi in certi occhi e ho visto il tramonto cambiare. Avrò pur vissuto in una bara di umidità e propellenti contro le zanzare, ma sono grata di aver visto una piccola parte di mondo in più. Non avrò tratto nessun comandamento, ma drago il tempo e continuano a venirne fuori “domandamenti” a bizzeffe. Quella pagina, un tempo bianca, è ora mio andare a capo. E, nella mia vita di tutti i giorni, ripartire da qui.

* 22 anni, di Galatina (Le), terzo anno di Giurisprudenza, sede di Milano, Collegio Marianum