di Chiara Piacentini *

Amo la letteratura: ho sempre trovato nelle parole dei grandi autori lo stimolo ad amare e conoscere l’uomo, ad apprezzare i valori che danno senso alla vita. Sentivo forte il desiderio di viverli nel mondo, di giocarmi in un’esperienza che mi permettesse non solo di vedere ma anche realizzare quella solidarietà e quell’incontro con l’altro di cui quotidianamente la letteratura mi parla e che dà senso a ciò che studio, ne è filo conduttore. Da qui l’interesse per il progetto del Charity Program e la grande gioia alla notizia che avrei trascorso tre settimane in Tanzania, ospite con le mie compagne d’avventura di alcune suore in un orfanotrofio nella piccola missione di Tosamaganga, a 600 km dalla capitale Dar es Salaam. Lì, ad attenderci insieme alle sisters, 68 bimbi, piccoli e piccolissimi, orfani o abbandonati.

Sono partita carica di attese, senza però riuscire a disegnare nella mia mente quell’Africa che tanto avevo atteso e che finalmente avrei visto. Ma una volta arrivata all’orfanotrofio, dopo il volo e il lungo viaggio in pullman, ho sentito, ed è stato meraviglioso, che ciò che avevo davanti era esattamente quello che in fondo aspettavo, che mi trovavo dove volevo essere, pronta per quell’esperienza.

Quando adesso, a distanza di qualche tempo dal mio ritorno, ho preso carta e penna, sembra difficile rispondere in poche parole. Dire: «è andato bene» o «è stato bello» non spiega quanto di «bene» e di «bello» possano esserci stati: è necessario uno sguardo più profondo. Belli, meravigliosi anzi i volti dei bimbi, l’immenso bisogno di amore di Chili, l’attenzione ai più piccoli di Anthony, i sorrisi di “Patatina”, gli abbracci di July; ancora, la disponibilità delle suore, l’impegno dei missionari; ma quanta fatica dietro, quanto lavoro, quanti dubbi e incertezze per ciò che sarà; quale futuro per questi bimbi? era la domanda che ritornava con insistenza.

Accanto a questa, non sono mancati dubbi e incertezze: a cosa serve che io stia qui? Non salvo nessun bimbo. Passo, come tanti; giochi, sorrisi, e poi me ne torno a casa. Ho avvertito talvolta un senso grande di impotenza di fronte alla realtà dell’Africa, alla miseria economica e culturale di certe realtà. Quanta terra bruciata intorno a questi bimbi: la mancanza di una mamma e un papà, la lontananza di uno Stato per cui questi piccoli neanche esistono. Ma la speranza non manca: ti perdi nei loro occhioni grandi e splendenti come specchi e credi che tutto andrà bene, speri con tutto il cuore che possano avere la possibilità di essere felici.

Nonostante tutte le difficoltà, For all that we have received: sono le parole di una preghiera scritta su una lavagna: Per tutto quello che abbiamo ricevuto. È strano che proprio questi bimbi preghino con queste parole. O forse no. Forse proprio qui è più facile capire la fortuna di avere cibo, vestiti, qualcuno che dedichi a te la propria vita, anche se non hanno i volti di mamma o papà ma di una suora, un padre o un volontario. Finalmente anche io ho potuto apprezzare cose semplici: è bastata una corsa insieme per essere amici, un sorriso per dire «ti voglio bene», pochi giorni perché mi sembrasse di aver sempre avuto nel cuore quel posto e quei piccoli volti. Forse anche questo mi ha sollevato da quelle piccole “scomodità” che rendono la quotidianità dell’Africa tanto lontana dalla nostra: il bagno senza luce, l’acqua calda da aspettare e da raccogliere in secchi, il dala-dala che non parte prima di essere pieno, e perché no, anche il sentirsi, una volta tanto, «diversi», oggetto di attenta o divertita osservazione soprattutto dei bambini per strada.

Avevo una certezza, che sarei tornata portando nel cuore qualcosa di grande. Pole pole, come ogni cosa in Africa: piano piano. Sì, perché serve tempo, come anche il Piccolo principe impara dalla volpe. Serve tempo, cura, amore per costruire qualcosa di grande, anche quando si ha a che fare con i più piccoli. Serve quel tempo che è il regalo più grande che si può portare loro, più grande delle caramelle, delle bolle di sapone e delle matite. Ho trascorso il mio tempo con loro e ora, tornata a casa, penso a quei bambini come ai miei bimbi, e questo cambia tutto.

Torno a casa con un senso grande di gratitudine verso di loro, pronti ad affidarsi alle mie braccia, a gettarsi con tanta spontaneità e semplicità verso chiunque possa donare loro un sorriso, un abbraccio, una carezza. Sono grata perché sono fortunata: per la vita che faccio in Italia, per la famiglia che ho e che questi bimbi non hanno mai avuto, per l’amore che ricevo e che questi bimbi ogni giorno cercano. Ancora più fortunata, perché torno a casa con nel cuore dei nomi, dei volti, capaci da così lontano di assorbire i miei pensieri. Dei nomi e delle storie da cui vorrei tornare e per cui vorrei fare qualcosa: Chili, Anthony, Francis, Franz, Yussuf, Epi, Filippo, “Patatina”, July, Glady, Aruni, asante! Grazie, per tutto quello che ho ricevuto.

* 22 anni, di Cassina de' Pecchi (Mi), terzo anno della triennale in Lettere, facoltà di Lettere e filosofia, sede di Milano