di Angelica D' Errico *

Angelica D'Errico con i bambini dello Sri LankaMata puluwan! Mata puluwan! Come on Angelica, say mata puluwan! Ma che significa?, chiedo io confusa. Una bambina dagli occhi svegli e intelligenti mi risponde fiera: «It means: I can». Così che tra verdi vallate silenziose mi ritrovo a giocare a cricket con un gruppo di bambine dell'orfanatrofio che mi rincorrono: urlano e ridono cercando di farmi capire cosa devo fare, un po' in cingalese, le più brave in inglese, qualcuna aiutandosi coi gesti. Mi abbracciano e mi chiedono com’è l' Italia, se so ballare, se so cantare e soprattutto se ho voglia di esibirmi per loro. Mi ricordano le bambine che ho conosciuto qualche giorno prima al Saint Mary College. In una scuola dai corridoi all’aperto, dritta davanti al mare, queste bimbe vivaci dai vestiti colorati giocavano a fare le grandi ballerine nel bellissimo palcoscenico che era stato costruito per loro. E così mi hanno insegnato a ballare, sorridendo del mio essere così maldestra nel tentativo di imitare le loro movenze eleganti, lente e sinuose.

Se dicessi che in 21 giorni ho capito cos’è lo Sri Lanka, mentirei. Talvolta una persona giunge in un luogo a cui sente misteriosamente di appartenere: è così che ho preso dimora tra paesaggi che non ho mai visto, tra persone che non ho mai conosciuto, come se mi fossero familiari fin dalla nascita. Dietro la calma apparente delle palme accarezzate dal vento, dell'erba incolta e profumata, delle onde morbide del mare, nell'aria profumata dai bianchi fiori notturni, un turbine di emozioni giocava a nascondersi. L' ho letto nel sorriso di una donna di mezza età che passa la sua vita in una piccola e organizzatissima fabbrica di candele, creata subito dopo lo Tsunami: la rapidità con cui gli occhi sereni si ingrigivano nel ricordo di una casa distrutta, di una famiglia persa, di un’esistenza spezzata a metà. L' ho letto nello sguardo di un ragazzo di trent’anni con un padre malato, tre sorelle sulle spalle e un orto come unica risorsa. L'ho letto nella tonaca sempre bianchissima di un prete cinquantenne con gli occhi di un bambino, guida spirituale e forza nuova e incredibile che risveglia in chi lo ascolta un istinto buono, generoso, dolcissimo.

C’è mistero nelle cupe profondità di quelle colline dove si indovinano vallate silenziose. C’è un pensiero latente, un pianoforte secolare che suona una melodia malinconica da tempo immemorabile. Una religiosità invisibile ma viva. E mi sento incantata davanti alla convinzione di una suora che ha girato il mondo e che è ora è li a mostrarmi fiera un asilo candido, immerso tra palme altissime cariche di frutti esotici, dove una bimba piccolissima mi attacca sul vestito una spilla azzurra e si inchina ai miei piedi. Mi sento stupita dalla vigorosa stretta di mano del preside di una “family school” dove convivono tanti bambini di tutte le religioni, elegante e vispo, che senza alcuna presunzione mi guida tra classi ricostruite e aule che invece sono ancora scure e cadenti, come il monumento che sempre ricorda quanto la natura è stata crudele con questa piccola isola dell' Oceano Indiano.

Angelica D'Errico, Annalisa Carmen Vigna e Valentina Trifletti con father CharlesIn 21 giorni ho girato senza sosta con le mie due compagne di viaggio in uno stato di perpetua meraviglia. Ho scoperto cosa significa sacrificare la propria esistenza in nome della solidarietà, ho scoperto quanto può essere sincera e disinteressata la generosità di chi giorno e notte si dedica alla cura di 80 anziani in un piccolo villaggio silenzioso e sereno, tra capanne di bambù e sedie di legno. Ho capito quanto può battermi il cuore quando una di loro mi si avvicina accarezzandomi le mani e dicendomi qualcosa che non posso capire, mentre il nostro Father Charles mi bisbiglia all’orecchio che tutti loro sono stati abbandonati in mezzo alla strada solo pochi anni prima, durante la guerra civile.

Presto mi sono resa conto che nulla nella mia vita mi aveva procurato gli strumenti per capire quella realtà. Ma non ho impedito a me stessa di parteciparvi con tutte le mie forze, di lasciarmi andare nel vortice delle emozioni che mi attanagliavano quando assieme ai partecipanti di un progetto bellissimo di solidarietà cantavamo Silent Night in un’afosa mattina di fine luglio. E non era forzato cogliere la delicatezza del momento, perché il tempo si fermava e noi eravamo lì intorno a un tavolo guardandoci negli occhi e raggiungendo un'intimità che neanche in dieci anni di amicizia si può assaporare, e dicendoci così tante cose in quell'«All is calm, all is bright».

Non ho trovato risposta alle mille domande che ogni giorno si affollavano nella mia mente. L'isola ha mantenuto il suo segreto inaccessibile con me. Ma oggi ripenso a quei luoghi e credo di sapere cosa stanno facendo tutte le persone che ho avuto l'onore di conoscere. Perché lì la vita sarà sempre così, pura e semplice come la divisa di scuola di un bambino, come le speranze di una ragazza di 20 anni, come un canto religioso e devoto, come il pescatore appollaiato su di un'asta in mezzo al mare per ore e ore. E penso che in quella quiete apparente qualcosa si muove; una volontà forte e condivisa di realizzare un sogno di dignità e di progresso. E so che gli sforzi piccoli ma quotidiani del popolo dello Sri Lanka sono concreti, reali, utili. Ancora adesso guardo i fogli colorati e pieni di pensieri bellissimi che mi hanno donato le bambine e sento la voce della piccola Thilini che mi accarezza: mata puluan, Angelica. I can.

* 21 anni, di Foggia, primo anno del corso di laurea specialistica in Politiche europee e internazionali, facoltà di Scienze politiche, sede di Milano - collegio Marianum