Datata 1861, la tela, realizzata ad un anno dalla vittoriosa campagna garibaldina nel sud d'Italia, appartiene all'ampia serie di dipinti dedicati da Gerolamo Induno all'esaltante epopea del condottiero, ripercorsa dall'artista, attento cronista dei fatti contemporanei, in numerosissime versioni, oscillanti tra lo scrupoloso resoconto bellico-cronachistico e la commossa rievocazione eroica. «VIVA L'ITALIA!». È un'esclamazione ormai rara, spesso pronunciata ironicamente. Eppure 150 anni fa quelle stesse parole furono, per molti uomini e donne, le ultime sussurrate prima di morire. Come per Goffredo Mameli, autore dell’inno nazionale, morto nel 1849, a soli 22 anni, nella difesa della Repubblica Romana. Nel delirio che precedeva la morte continuò a declamare versi, dimostrando che «siam pronti alla morte» non erano parole vuote.

Sebbene legati al proprio Paese, oggi gli italiani ne parlano bene solo quando si tratta di difenderlo da attacchi. Rispondono che «l’Italia è il Paese più bello del mondo» col tono di un'amara consolazione e come se l'Italia non fosse una faccenda seria, dimenticando che è stata riunita con fatica. Lo stesso Risorgimento è stato da più parti considerato un movimento da salotto, animato da una borghesia distante dalla gente comune, da una piccola minoranza. Eppure accanto ai personaggi più celebri c'era la gente comune, protagonista dei moti che nel 1848 travolsero le più grandi città, da Milano a Palermo. Erano mossi da un ideale di Stato democratico che avrebbe posto l'Italia allo stesso livello delle moderne nazioni occidentali.

Quelli del Risorgimento furono personaggi quasi romanzeschi, magnificamente italiani, come Camillo Benso conte di Cavour, aristocratico e cosmopolita, considerato una delle menti più brillanti dell'Europa e morto povero per essere entrato in politica, e il suo grande nemico Giuseppe Garibaldi, di cui disse: «Egli ha dato agli italiani fiducia in loro stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sanno battersi per riconquistarsi una patria». E poi Vittorio Emanuele, re popolano che rinunciò a Torino, da tre secoli capitale della dinastia Savoia, perché la capitale fosse Roma, la città fulcro della classicità e della cristianità. Infine Giuseppe Mazzini, che Metternich descrisse come «un manigoldo italiano, pallido e straccione, ma facondo come l'uragano, furbo come un ladro, infaticabile come un innamorato».

Nonostante i suoi protagonisti, il Risorgimento non è mai diventato una grande epopea a causa di un atteggiamento cinico che richiama solamente gli episodi più bassi di questa saga, che è comunque bene non dimenticare. Dietro la storia di ogni nazione ci sono ombre e errori da condannare, ma queste non devono oscurare l’intero processo: il Risorgimento, come tutte le grandi rivoluzioni, fu una saga bellissima, ricca di episodi eroici e grotteschi e con il finale più bello, ovvero la fine delle monarchie assolute e l'inizio delle grandi conquiste liberali, dalla democrazia rappresentativa ai diritti civili. Una storia che non bisogna dimenticare.

 


Gli interventi che seguono sono di Gabrio Forti, docente di Diritto penale e preside della facoltà di Giurisprudenza; Alessandro Rosina, docente di Demografia; Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea; Paolo Colombo, docente di Storia delle istituzioni politiche; Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea; Giovanni Gobber, docente di Linguistica generale; Cecilia De Carli, docente di Storia dell’arte contemporanea; Lorenzo Morelli, docente di Biologia dei microrganismi e preside della facoltà di Agraria; Milena Santerini, docente di Pedagogia generale; Laura Zanfrini, docente di Sociologia delle differenze e delle disuguaglianze.