«Il timore è che l’Occidente non solo non si renda conto del disastro che si consuma, ma non abbia neppure l’interesse di fermarlo, dopo essersi reso responsabile dell’innesco di questi processi». Il Custode di Terrasanta, padre Pierbattista Pizzaballa, non usa giri di parole per descrivere l’incendio che divampa in Medioriente.
«Se si tratta, come sostiene Papa Francesco, di guerra mondiale a puntate, è una guerra del tutto atipica, fluida, nella quale i nemici di ieri divengono gli alleati di domani, in cui manca chiarezza di obiettivi da raggiungere e gli interessi in campo sono spesso non dichiarati - spiega - . E intanto la gente muore, i profughi aumentano e costituiranno un fattore di destabilizzazione politica ancora negli anni a venire, perché stanno ridisegnando la composizione sociale dei Paesi in cui sono accolti».
Un futuro preoccupante, su cui la Custodia di Terrasanta non vuole mancare di fare ancora credito alla speranza. Anche con iniziative che, a un primo sguardo, potrebbero sembrare non direttamente connesse. Come testimonia l’investimento che i Francescani hanno fatto sulla valorizzazione del patrimonio librario della loro Biblioteca. Un’operazione di cui è protagonista l’Università Cattolica con “Libri ponti di pace: un progetto per Gerusalemme” (di cui parliamo qui a lato), che ha coinvolto negli ultimi cinque anni circa 25 studenti dell’ateneo, impegnati sul campo a catalogare un tesoro fatto di manoscritti e volumi a partire dall’XI secolo.
Padre Pizzaballa, perché avete intrapreso questo progetto? «Certamente per un obiettivo culturale. L’ingente patrimonio librario e documentale, che copre centinaia di anni di storia, è una risorsa immensa, soprattutto se pensiamo che questa è per definizione la Terra della Parola e della Scrittura, cioè della rivelazione che Dio ci ha consegnata ed è stata qui fissata per iscritto. Ma la biblioteca e l’archivio sono anche delle risorse dal punto di vista economico, perché possono rappresentare un’occasione di lavoro e di studio per i cristiani locali».
Perché la valorizzazione di questi antichi volumi può fare spazio alla speranza? «Perché sono un grande ponte di dialogo: il dialogo nasce e si sviluppa nella misura in cui ho chiara la mia identità, so chi sono e posso parlare di me con libertà, perché sono figlio di una storia plurisecolare; non mi metto in soggezione di fronte al mio interlocutore, perché so che ho un patrimonio di esperienza da condividere e con cui arricchire l’altro, anche in vista della soluzione di problemi comuni. E questa è una Terra problematica!».
La cultura può essere uno strumento di dialogo? «Noi ce l’abbiamo scritto nel nostro Dna. Da secoli - le nostre scuole sono state le prime aperte in queste regioni sotto la dominazione ottomana! - nelle nostre istituzioni educative studiano ragazzi di ogni religione e confessione cristiana. La nostra tipografia ha iniziato, prima a Gerusalemme, a pubblicare testi in arabo oltre un secolo e mezzo fa. E, per stare a un’iniziativa nata appena vent’anni or sono, il nostro Istituto di Musica sacra “Magnificat” riunisce studenti e professori arabi e israeliani, cristiani e non, cattolici e ortodossi».
Ma le vicende degli ultimi tempi in Medioriente danno più fiato ai falchi che alle colombe. «In un contesto in cui i conflitti si radicalizzano e assumono anche coloriture religiose, noi cristiani dobbiamo costruire occasioni di incontro e di dialogo, come ha saputo fare Papa Francesco nel giugno scorso, proprio di ritorno dal viaggio in Terra Santa. Di questi gesti profetici dobbiamo farci promotori, sapendo che non sempre saranno accolti dalle parti in conflitto, che non sempre saranno compresi da tutti, ma che sono parte di quella dimensione profetica della vita cristiana che ci è irrinunciabile».
Però i cristiani sono sempre di meno… «La confusione che regna a causa delle guerre in atto e dell’incertezza politica porta alla fuga di massa dei cristiani, come di altre minoranze, che sono le prime vittime di questi conflitti, perché sono anelli deboli della catena sociale. Cercano sicurezza emigrando, con la conseguenza che cala proprio quella componente della società costitutivamente capace di essere ponte di dialogo e di unità. Le terre che hanno visto nascere il cristianesimo stanno perdendo i testimoni viventi di questa nascita. È terribile a pensarlo».
Eppure c’è chi mette sul banco degli imputati le religioni. «Quella della convivenza con le altre fedi religiose è la nostra esperienza quotidiana: che le religioni non siano foriere solo di scontro è per noi ovvio, visto che da ottocento anni viviamo come minoranza in queste terre. Agli episodi di violenza e di intolleranza dobbiamo rispondere con gli stessi atteggiamenti di perdono che ha avuto Gesù, ma anche promuovendo la conoscenza reciproca, perché spesso è l’ignoranza che genera violenza».
Come evitare che quella delle armi sia l’unica risposta all’incendio che si propaga in tutto il Medioriente? «Serve un’opera educativa da compiere qui, ma anche in Italia, in Europa, nel mondo; un’opera di sensibilizzazione sul dramma che si vive oggi in Paesi come la Siria e l’Iraq. C’è bisogno anche di prendere coscienza delle cause dei conflitti in corso, che sono spesso più profonde di quanto non appaia in superficie».
Torniamo così al tema della cultura. «Certamente. L’opera da intraprendere è anche culturale: conoscere la storia di questi paesi, conoscere le loro tradizioni religiose e la storia delle loro fedi, valorizzare anche il contributo cristiano che nel corso dei secoli ha costituito una fonte di progresso per questa regione, far prendere coscienza ai Paesi occidentali delle loro responsabilità in questi conflitti per non cadere nella facile semplificazione dello “scontro di civiltà” o, peggio, della “guerra di religione”».