Giornata mondiale della gioventù, milioni di giovani riuniti insieme nello stesso luogo… wow! All’inizio uno non ci pensa, magari non ci fa neanche caso, ma solo a leggere “mondiale” vengono i brividi. Sarà per questo che suona meglio dire GMG: fa meno paura. Chi non l’ha vissuta almeno una volta nella vita, non sa cosa significa. E forse è proprio il fatto di non essere così ben consapevoli di cosa significhi viverla che ti fa dire: “sì, io ci sto, voglio esserci”.

Non per forza una cosa così grande richiede sempre una riflessione altrettanto attenta, minuziosa, esauriente. Prendete me, ad esempio: giravo un giorno come un altro per i corridoi della Cattolica quando feci caso ad una locandina appesa sui muri. Non fu tanto la scritta a colpirmi: fui invece preso soprattutto dall’immagine di un castello sullo sfondo, su cui campeggiava a caratteri cubitali un numero: 150. Tutto bene, tranne il fatto che a fianco c’era la sigla km: 150 chilometri!!! Sì, la proposta era di percorrere a piedi centocinquanta chilometri da Avila a Madrid. La GMG diventava punto di arrivo, meta di un percorso lungo una settimana. E trascorrere questa settimana, a cui se ne sarebbe aggiunta un’altra a Madrid, vivendo giorno per giorno, minuto per minuto in compagnia di ragazzi e ragazze che non conoscevo, avrebbe reso ancora più azzeccata la mia scelta.

Ma questo ancora non lo sapevo. È così: quando banalmente capita di intraprendere un viaggio, di solito, alla base della scelta ci sono più certezze che dubbi. Decidiamo di partire con amici di vecchia data, persone familiari, diretti magari verso la stessa località dell’estate precedente perché ci è piaciuta, perché sicuri di ritrovarsi a proprio agio. Ebbene, è tutta un’altra cosa quando l’unica certezza alla partenza sei tu con zaino e sacco a pelo sulle spalle. La condivisione di tempi e spazi, la comunione di vita di un pellegrinaggio con persone che non conosci dovrebbe spaventare.

Invece, qui si giocò gran parte della mia scelta: vivere una esperienza, aprirsi spontaneamente agli altri e agli eventi che ne conseguono. Riscoprirsi per quello che si è, porsi nei confronti dell’altro con purezza e semplicità. Il mio era un dire ‘no’ ai continui pregiudizi e alle incomprensioni che ci precedono nel rapporto quotidiano. Poter parlare liberamente, poter essere sinceri senza la preoccupazione di ricordarsi di non dire “questo a quello perché è amico di quell’altro che non condivide questo”. Soprattutto è meraviglioso accorgersi di leggere questa stessa spontaneità negli occhi di molti altri che altrettanto sinceramente si pongono nei tuoi confronti. E questo è fondamentale per vivere in comunione: sentirsi parte di un gruppo per quello che si è, significa di conseguenza ricoprire il ruolo che meglio ci rappresenta.

Niente maschere, nessun volto finto e ingannevole; a nascondersi dietro le apparenze c’era solo da perderci. Questa esperienza mi ha aiutato a riscoprire alcuni tratti di me che non ricordavo: mi sono messo in gioco, ho affrontato momenti di riflessione, ho posto problemi che di solito non mi pongo, ho pregato e cantato al Signore con sentita umiltà, ho camminato in silenzio, ho scherzato, mi sono divertito … mi sono riscoperto sereno.

Prima di partire mi ero ripromesso di sfruttare queste due settimane per pensare, per riflettere su quello che veramente volevo. Volevo capire quali fossero le mie priorità; volevo interrogarmi su alcune questioni. Come fai a dare tutto te stesso per la ragazza che ami e insieme spendere la vita in oratorio per i tuoi ragazzi? Come conciliare le due cose? Non si rischia di far male tutto? E per quanto adesso, una volta tornato, io stia ancora cercando di capirci qualcosa, mi piace sottolineare quanto mi è servito poterne parlare con i miei compagni di viaggio, quanto sia stato bello sentirsi ascoltati.

foto di gruppo pellegriniCapita spesso di parlare da soli con se stessi: ecco nell’aprirmi ai miei compagni ho trovato la stessa profondità della riflessione personale. In più, però, c’era chi ti ritirava la pallina. Se giochi a ping-pong contro la parete come Forrest Gump, la pallina torna sempre e ti stimola a ritirarla di nuovo.

Aprirsi con una persona che ti ascolta perché sinceramente interessata aiuta per questo: l’attenzione torna su di te sempre con un nuovo stimolo. Il problema rimane, la situazione nel concreto non cambia immediatamente: quello che cerchi nell’altro non è una risposta ma il rivolgersi dell’attenzione su di te. Tante più volte ritorna la pallina, tanto più rielabori i tuoi pensieri e cresci nella consapevolezza degli stessi. E in questa relazione pura con gli altri si finisce col riconoscere la relazione con l’Altro: è proprio lui che tante volte, forse quando pensiamo sia tutto finito, ci rilancia la pallina, ci chiama in gioco e ci illumina la via per non perderci.

Di certo, poi, il camminare insieme e lo stile del pellegrinare conciliano la riflessione. Ma la riflessione è fatta anche di esperienze concrete, immagini vive. E con l’arrivo a Madrid il paesaggio si è fatto suggestivo. Il paesaggio si è riempito di giovani, di volti, di colori, di bandiere. Che spettacolo! Chi di noi cercava una testimonianza per risvegliare una fede in lui assopita, l’aveva trovata! Giovani di tutte le età, delle nazioni più disparate, tutti riuniti per pregare Dio. Ci riconoscevamo nell’essere cristiani. Essere cristiani significa amare i fratelli come Gesù ci ama. E a Madrid, milioni di giovani si sono abbracciati come fossero una cosa sola! L’entusiasmo dei giovani è contagioso. Ma soprattutto è lo stile cristiano che entusiasma! Una cosa, credo, si possa dire sia stata notata da chiunque abbia accolto al rientro i giovani italiani dalla Spagna: tutti avevano in viso un sorriso di gioia, di una gioia che prende, che arriva al cuore.

La Giornata Mondiale della Gioventù non dà nessuna soluzione, anzi ti pone di fronte alla tua fede e ti chiede di fortificarla. La GMG ti rilancia la palla. Non devi pensare di trovare Dio. Là non lo trovi; trovarlo vorrebbe dire smettere di cercarlo, smettere di camminare, smettere di vivere inseguendo, o se si è più fortunati, seguendo Dio. Credo che il senso del pellegrinaggio sia imparare a cercare Dio, a non darlo per scontato, assodato come chi si ripete: Dio c’è, sappiamo che c’è, ci basta questo … no … non può bastare così! E per parafrasare una citazione del Carogna nel film Notte prima degli esami, mi verrebbe da dire: “ l’importante non è quello che trovi alla fine ma quello che provi mentre cammini”. Camminare insieme è il senso. E, paradossalmente, ha senso se ad un certo punto ognuno prende la sua strada: è lo stile che conta. E per stile si può intendere il fatto di camminare verso lo stesso fine: il nostro è un “camminare per cercare”.

Questo è lo stile cristiano. E non importa se quello che si cerca è differente: ognuno può cercare Dio nelle sue o altrui virtù, nelle aspirazioni, nei talenti, nelle incomprensioni, nelle delusioni, sconfitte sue o altrui. Ma soprattutto lo stile deve essere quella cosa che ti fa riconoscere subito, un po’ come quando all’estero gli italiani si fanno riconoscere … siamo inconfondibili! Ecco: i musulmani si riconoscono, gli ebrei si riconoscono, anche il cristiano si deve far riconoscere. Questa secondo me è la paura di oggi: la paura di farsi riconoscere come cristiani. Nella società odierna il cristiano è troppo in balia della corrente scettica di indifferenza che ci circonda. E non sempre si è attorniati da milioni di giovani entusiasmanti, non sempre è il Papa a starti di fronte e a parlarti. Eppure questo è il più grande insegnamento della GMG: bisogna tornare ad essere inconfondibili come l’italiano all’estero! Inconfondibili come il gruppo dell’Università Cattolica a Madrid, grandi ragazzi!