Quanto incidono le decisioni politiche sull’economia di un Paese? Sono veicolo di innovazione o strumento per il mantenimento dello statu quo? Sono solo alcuni degli interrogativi ai quali ha cercato di rispondere Howard Rosenthal (nella foto), professore di Social Sciences e Politics alla Princeton University, da anni attento osservatore delle dinamiche politiche statunitensi e delle loro ricadute sull’andamento economico. Lo studioso americano, secondo alcuni rumors in odore di premio Nobel, lo scorso 11 settembre ha tenuto la sesta annual lecture della Scuola di Dottorato in Economia, finanza e amministrazione pubblica (Defap), diretta da Massimo Bordignon, docente di Scienze della finanza. Political Bubbles: the Political Economy of the 2008 Financial Crisis in the United States: questo il titolo della lezione che si inseriva in una due giorni di studio promossa dalla Cattolica, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e l’Università di Milano-Bicocca, dedicata proprio all’impatto della politica sull’economia di un paese a partire dall’analisi di una serie di fattori, per esempio il funzionamento delle istituzioni, le misure fiscali, le leggi elettorali, le riforme, la durata di una legislatura. «In un periodo così critico è cruciale individuare gli strumenti utili per attuare una corretta politica economica», ha dichiarato il prorettore dell’Ateneo di largo Gemelli Luigi Campiglio, introducendo l’incontro. «Strumenti – ha aggiunto Giovanna Iannantuoni, docente all’Università Milano-Bicocca – che Rosenthal sta cercando di fornire attraverso i suoi contributi teorico-empirici alla politica economica».

Esiste, infatti, la possibilità di misurare gli effetti che determinate scelte politiche possono avere a livello economico. È questa in sintesi la tesi di fondo delle ricerche condotte dal professor Rosenthal, coautore qualche anno fa insieme a Nolan McCarty, della Princeton University, e Keith T. Poole, della University of California, del volume: Polarized America: The Dance of Ideology and Unequal Riches(MIT Press, 2006). Secondo gli studiosi americani - che nel frattempo stanno lavorando a un seguito del libro, intitolato Political Bubbles: Financial Crisis and Failure of American Democracy - c’è uno stretto legame tra polarizzazione economica e polarizzazione politica, come risulta dal comportamento di voto dei rappresentanti repubblicani e democratici al Congresso. Negli ultimi decenni questo fenomeno si è acuito in corrispondenza della crescita delle disparità di reddito all’interno della società americana. Il risultato? Un Senato e una Camera dei Rappresentanti sempre più polarizzati, che ha portato ad attenuare le distinzioni tra i due schieramenti partitici. Il fatto è che minore è la polarizzazione economica, più alta diventa la probabilità di maggioranza bipartisan. Nel caso opposto la votazione finisce per seguire motivazioni ideologiche.

Ciò significa, ha osservato Rosenthal, che le scelte politiche diventano espressione di “pura ideologia” ovvero rappresentative di quelle fasce sociali che preferiscono conservare i privilegi acquisiti. Si creano così le condizioni per l’emergere di una situazione politica di “stallo” poco favorevole all’introduzione di nuove riforme sociali, fiscali e giudiziarie. L’ostruzionismo alla riforma sanitaria ne è l’esempio più evidente. Inoltre, alcune misure messe in campo dal governo federale per fronteggiare la crisi finanziaria, a detta dello studioso americano, illustrano chiaramente un quadro politico in cui lobby e poteri forti hanno potuto esercitare al meglio il loro influsso. Anzi, la forte connessione tra politica e interessi economici ha non poche responsabilità nell’aver contribuito a generare una delle peggiori crisi che negli ultimi anni ha investito gli Usa. Ne è un esempio l’assenza per lungo tempo nel settore finanziario di una regolamentazione nel settore bancario.