Per l’Helicobacter pylori si attendono tempi duri. O almeno così spera il gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica-Policlinico “A. Gemelli” di Roma, che ha appena pubblicato uno studio sulla rivista internazionale Clinical Gastroenterology and Hepatology. «Il nostro lavoro è originale» - spiega il gastroenterologo della Cattolica Giovanni Cammarota, che ha guidato il gruppo formato da Giovanna Branca, Fausta Ardito, Maurizio Sanguinetti, Gianluca Ianiro, Rossella Cianci, Riccardo Torelli, Giovanna Masala, Antonio Gasbarrini, Giovanni Fadda, Raffaele Landolfi e Giovanni Gasbarrini - perché esplora la possibilità di eradicare ceppi resistenti di Helicobacter pylori con uno schema terapeutico innovativo».

L’Helicobacter pylori è il batterio che causa la maggior parte delle ulcere e buona parte delle gastriti croniche, come dimostrarono all’inizio degli anni Ottanta Barry Marshall e Robin Warren, premiati per questa importante scoperta con il Nobel per la medicina 2005. Si stima che circa la metà della popolazione mondiale ospiti nel proprio stomaco questo sgradito ospite dalla caratteristica forma spiraleggiante, anche se la maggior parte delle persone per fortuna non sviluppano mai nessuna malattia.

Nella piccola percentuale di casi in cui invece si contrae l’ulcera, manca a tutt’oggi una terapia ottimale per eradicare questo batterio. Di solito, nelle forme di infezione più resistenti alla terapia antibiotica si cerca di stabilire, attraverso test di sensibilità batterica, qual è l’antibiotico più indicato in ciascun paziente.

La nuova terapia sperimentata al Gemelli è potenzialmente più promettente perché, come spiega Cammarota, «è capace di incidere sul biofilm prodotto dal germe». Il biofilm è una specie di barriera extracellulare di cui il batterio si circonda per difendersi dall’attacco degli agenti esterni. Uno strumento importante per un batterio che è capace di sopravvivere in un ambiente estremamente acido quale è lo stomaco.  

Il gruppo di ricercatori ha sperimentato, dapprima con uno studio in vitro e poi con un trial clinico, la possibilità di “dissolvere” il biofilm per mezzo di un mucolitico prima di somministrare l’antibiotico con l’obiettivo di renderlo più efficace contro il batterio. L’ipotesi di lavoro è che sia proprio il biofilm a causare la scarsa penetrazione (e dunque la scarsa efficacia) degli antibiotici, che così spesso viene osservata nei pazienti.

La prima fase di questo studio è stata dimostrare che il mucolitico prescelto, la n-acetilcisteina, era effettivamente in grado di inibire efficacemente la formazione del biofilm del batterio. Per fare questo i ricercatori hanno isolato l’H. pylori derivante da pazienti che erano stati sottoposti ad almeno quattro tentativi infruttuosi di eradicare il microrganismo attraverso cicli antibiotici.

Una volta dimostrata in vitro la bontà dell’idea, il gruppo ha condotto un trial clinico suddividendo in due gruppi 40 pazienti i cui ceppi di H. pylori non si era riusciti precedentemente a eliminare. A metà di loro è stato prima somministrato il mucolitico e in seguito il trattamento antibiotico personalizzato, basato sulla scelta dell’antibiotico più sensibile attraverso l’esame colturale del germe e del relativo antibiogramma. Il secondo gruppo è stato invece sottoposto alla sola terapia antibiotica personalizzata, senza che previamente venisse loro somministrato il mucolitico. Il risultato è che nel primo gruppo, a due mesi di distanza, in 13 casi (65%) si è riusciti a eradicare il batterio, mentre nel secondo gruppo la terapia funzionava solo in 4 (20%) dei venti pazienti.

«Saranno necessari altri studi per spiegare come mai non funziona in tutti i casi - conclude Cammarota - ma indubbiamente questi primi risultati sono incoraggianti. Dovremmo studiare se aumentare il dosaggio o l’esposizione al mucolitico per rendere la cura più efficace. Un’altra possibilità è quella di studiare altre sostanze per inibire la formazione del biofilm o per renderla instabile».