Quale sarà il futuro delle scienze della comunicazione, quali nuove metodologie verranno utilizzate, come ci si adatterà alle innovazioni tecnologiche. È l’ambito di indagine a cui era dedicato lo scorso all’Università Cattolica, Mediascapes, un evento che ha messo a confronto i principali mediologi italiani con studiosi di altre discipline, giornalisti ed esperti di tecnologie. «Quel vasto repertorio di immagini, narrazioni e forme testuali che vortica nei mediascapes –precisa l’antropologo di origini indiane, Arjun Appadurai - non è composto da forme oggettivamente date di pratiche e immaginazioni, quanto piuttosto da costrutti profondamente prospettici, la cui consistenza cambia al cambiare del punto di vista dal quale li si guarda». La storia che abita e che prende forma nei media alle nuove dinamiche di relazione e partecipazione che configurano la sfera pubblica contemporanea; le inedite possibilità digitali di propagazione della memoria culturale alla post-serialità del cinema del XXI secolo; la pedagogia che incorpora multimedialità e interattività ai corsi universitari e al modo in cui in essi si insegnano e si apprendono le scienze della comunicazione: sono questi i mediascapes. A tenere insieme questo vasto intreccio di questioni, proposte interpretative e domande di ricerca, non è stato solo il comune riferimento a quell’universo sempre più sfuggente che, prima della rivoluzione digitale, era pacificamente definito come luogo dei mezzi di comunicazione e dell’industria culturale, ma anche e soprattutto la comune intenzione di ragionare contemporaneamente sull’oggetto di studio e sul punto di vista che su di esso si applica. Che confini hanno le scienze della comunicazione? La tecnologia può allungarne i limiti fino ad arrivare a orizzonti ancora inesplorati?

A inaugurare i lavori, una riflessione a due voci coordinata da Fausto Colombo e Paolo Colombo, entrambi docenti della facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, rispettivamente nei corsi di Teoria e Tecnica dei Media e di Storia Contemporanea. Il tema è quello delle storie, quelle piccole e al plurale che si insinuano sotterraneamente nella realtà quotidiana per percorrerla, come nel giro d’Italia, o per anticiparla profeticamente, come nella televisione degli anni ’80. Ma è anche quello della Storia, maiuscola e al singolare, fatta di grandi identità collettive, di miti fondativi e di traumi culturali. Dal rapimento di Aldo Moro, raccontato dalla cronaca di Paolo Frajese che improvvisamente rompe i canoni del racconto giornalistico istituzionale di cui fino ad allora si era fatto portavoce, al Presidente della repubblica Pertini che assiste ai Mondiali del 1982. Dall’intreccio di racconti si profila l’idea che la storia si nutre delle passioni che ha trovato nei media e nella cultura popolare il suo principale centro di elaborazione. Ma insieme rimane la convinzione che lo studio sui media non possa rinunciare a radicarsi in una prospettiva storica che ne restituisca significati culturali e trame sociali.

A riportare l’analisi nel presente dei media, quelli digitali, ci hanno pensato Alberto Abruzzese e Andrea Miconi dell’Università Iulm e Carlo Formenti dell’Università del Salento. Oggetto della discussione sono le forme di neocomunitarismo della rete e l’ipotesi che in esse possa trovare spazio una nuova etica del dono, una forma di scambio relazionale in grado di soppiantare i classici equilibri di potere. «Il nostro presente è in realtà contraddistinto e pesantemente condizionato dall’intersezione di molteplici narrazioni – afferma Andrea Miconi - molte delle quali trovano nella rete e nei mezzi di comunicazione digitali il loro principale orizzonte utopico». L’economia del dono sembra essere diventata in maniera naturale e in parte inavvertita la base di un nuovo modello di business. Dietro il gioco di movimenti finanziari, di fusioni e grandi acquisizioni che stanno riconfigurando lo scacchiere della rete da Google a MySpace, passando per YouTube e Facebook, si cela un sistema produttivo che sta capitalizzando in maniera altamente redditizia quella cultura partecipativa che noi singoli utenti alimentiamo ogni qualvolta usiamo i social network per condividere testi e video con le nostre reti amicali.

Silvano Tagliagambe, professore ordinario di Filosofia della Scienza alla facoltà di Lettere e filosofia dell'Università La Sapienza di Roma, fa riflettere sull’importanza dell’innovazione tecnologica nei cambiamenti delle teorie comunicative. «Ma il potenziale di innovazione e libertà che ha accompagnato la nascita di internet non è andato del tutto perso – rassicura Giovanni Boccia Artieri, sociologo dei nuovi media presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” - anzi il vero punto di svolta non è tanto la costruzione concreta di azioni e relazioni sociali consistenti e stabili nel tempo, ma risiede soprattutto sulla potenzialità di contatto, di messa in relazione; quello che si sta creando è un accesso generalizzato alla contingenza del mondo». La “rivoluzione inavvertita” della rete rende più flessibili i confini di ruolo tra produttori e consumatori, professionisti e amatori e spalanca le porte verso una nuova organizzazione e pluralizzazione del potere simbolico. «Abbiamo collocato le nostre società all’interno di un acceleratore digitale – ribadisce Giuseppe Granieri, docente presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” - la sfida ora è quella di creare una massa critica di idee e intelligenze che sappia traghettare la rete verso logiche meno elitarie e meno autoreferenziali di quelle maturate finora nel contesto italiano».

È Giovanni Ragone, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma a sottolineare le ricadute della rivoluzione digitale sulla memoria collettiva e sull’eredità culturale. «La generalizzata e immediata disponibilità di archivi che materializzano il ricordo – sottolinea Ragone - non è solo spia di un lungo processo di convergenza tra la mente e le nuove tecnologie della comunicazione, ma è insieme tramite e acceleratore di un profondo cambiamento sociale». «Siamo nel bel mezzo di un conflitto - prosegue Ragone – un conflitto di potere, di ruoli, di autorità, in cui converge tanto la crisi delle istituzioni classiche della cultura quanto quell’incontrollabile processo di straniamento di luoghi, di soggettività e tradizioni che trova nella cultura digitale il suo luogo d’elezione».

A introdurre nuove linee prospettiche nei mediascapes tracciati è l’interrogativo di Gianni Canova, professore di Storia del cinema presso l’Università Iulm, che, ribaltando la logica tradizionale che pensa alla rete come matrice unica dei cambiamenti, si chiede cosa sarebbe oggi internet se non ci fosse stato il cinema a informarlo del suo lessico, dei suoi statuti espressivi e delle sue narrazioni. Insieme a lui, Gino Frezza e Sergio Brancato, entrambi professori presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno, riflettono sulle dinamiche che il digitale ha innestato nella relazione tra il testo audiovisivo e il suo pubblico, ipotizzando che sia in atto un passaggio dalla disciplina della serialità alla indisciplina della multimedialità in cui le forme classiche del cinema esplodono in una miriade di pratiche di proliferazione e riscrittura.

Ma come trasformare la comunicazione in creazione, trasmissione e circolazione di conoscenza? A questa domanda hanno risposto i ricercatori Alessandra Anichini, Giusy Cannella, Stefania Chipa, Elena Mosa, Gianluca Torrini, Leonardo Tosi, del Communication Strategies Lab, centro di ricerca dell’Università di Firenze che opera nel campo dell’ideazione e dello sviluppo di strategie di comunicazione per istituzioni e imprese. La proposta teorica di una “comunicazione generativa” che agisce nella realtà si è avvalsa della focalizzazione su due contesti specifici, le aule scolastiche e i beni culturali, andando a indagare in che modo una pianificazione ragionata dei processi della comunicazione possa tradursi in una valorizzazione dei patrimoni culturali.

Infine, il convegno si è chiuso con un’approfondita riflessione sul profilo accademico delle scienze della comunicazione, sulle condizioni che ostacolano o che facilitano l’insegnamento e il rinnovamento di quelle convergenze prospettiche che plasmano i mediascapes contemporanei. Che peso hanno i corsi di laurea in scienze della comunicazione oggi nella sfera della cultura e della politica nazionale? «Sono ancora in grado di produrre un sapere che sappia giustificarsi per la rilevanza della sua oggettività?» - ha provocatoriamente suggerito Ugo Volli, professore di Semiotica presso l’Università di Torino. È nelle aule universitarie affollate di studenti divisi tra il bisogno di sapere e l’ansia di costruirsi una professionalità, nei piani di studio che tentano di preservare una coerenza formativa a dispetto di un continuo e spesso sconnesso susseguirsi di riforme universitarie, che si giocherà la partita della scienza della comunicazione, la sfida di una disciplina che rivendica la sua capacità non solo di produrre sapere, ma di indicare “cosa è rilevante sapere”. Il futuro, suggerisce Alberto Abruzzese, sociologo, scrittore e docente allo Iulm, è una cultura della comunicazione che sappia farsi “soggetto della narrazione” all’interno di una società quanto mai densa di narrazioni.